di Dante Freddi
Sotto quel macigno c’era un mulinello che trascinava insetti o plancton o fiori o qualcos’altro di ghiotto per cavedani, barbi, rovelle. Veniva raccolto dall’acqua a monte e passava lì tra quei sassi. Non c’era bisogno di pasturare ed era un gran divertimento pescare in quel buco poco profondo. Era nella riva opposta a quella che si raggiungeva dopo aver lasciato l’auto e camminato quasi mezz’ora.
Si entrava nel fiume con l’acqua a metà coscia, fino a un masso piatto, che consentiva di non dover stare in quell’acqua fredda con gli stivali tirati su. Una canna da cinque metri andava bene in quel tratto del Paglia e si raggiungeva il pesce tra le rocce dell’altra riva, proprio lì dove stava. Il galleggiante affondava veloce, còglievi nelle vibrazioni della canna la resistenza del pesce, i movimenti repentini, le ficcate decise.
Nella lotta disperata contro di me seguiva la corrente e poi tentava di insinuarsi in qualche tana sul fondo, finché cedeva dibattendosi nel guadino e infine nel cerignolo. Qualche volta aveva la meglio lui e la canna tornava indietro sferzando. Sulla spiaggia di fronte, una sequenza fitta di vetriche odorose e sopra una collina erbosa e qualche cespuglio. Al di là un’altra collina e in alto un vecchio casolare abbandonato.
Dal sasso, che emergeva una ventina di centimetri sopra il filo dell’acqua, vedevo ogni movimento del galleggiante, tenuto sempre in tiro, che seguiva la corrente, i mulinelli e poi riprendeva dritto per un tratto.
Il galleggiante rivelava il moto dell’acqua e si fermava in un punto, in un altro, poi ripartiva lesto. Se dopo quel giro non aveva abboccato nulla tiravo su e rilanciavo, per ricominciare con quella traiettoria, o tentando qualche centimetro più in là.
Tendevo un’insidia a quel pesce che stava nel suo elemento, libero, pieno di vigoria, ma io avevo scoperto i suoi rifugi e i suoi segreti.
Quell’astuzia, che è davvero poca cosa, mi regalava una soddisfazione irrazionale, un piacere ancestrale, e su quel sasso io vincevo la natura che difendeva barbi e cavedani e che mi regalava a volte abbondanti catture, che onoravo in cucina. I barbetti fritti o le rovelle erano squisiti, anche conservati in carpione, con una salsa di aceto, cipolla, carota.
Cacciavo in un rapporto di forze che mi sembrava onesto o che pretendevo lo fosse. L’acqua lassù era pulita, non c’erano campi coltivati a margine del fiume e le prime aree utilizzate in agricoltura lambivano le rive soltanto vicino ad Acquapendente.
Non c’era mai neppure un pescatore, la strada era bianca e dissestata, bisognava camminare troppo per troppo poco pesce rispetto a zone più facili. Lì alla Selva il pesce lo cercavo tra i sassi e gli anfratti e i rigiri d’acqua e se il mio buco preferito non dava risultati, perché una piena aveva cambiato qualcosa a monte, andavo su e giù per la sponda e alla fine della giornata il divertimento era certo, ma le prede potevano essere anche poche.
La Selva era il luogo dove stavo più tranquillo, il mio rifugio, il posto che visualizzavo quando volevo pensare la serenità . Era sempre lì, potevo andarci quando volevo, a piedi o con la mente. Vicino a me, su un’enorme pietra piatta che attraversava mezzo fiume e lo tagliava c’era sempre anche Carlo.
Ogni mattina la stessa storia.
« Maria, sono Orazio, scusa l’ora, Carlo è sveglio? ».
« No, dorme, ora lo chiamo, mi si è svegliata la figlia, potreste anche organizzarvi meglio», dice Maria appoggiando il telefono in attesa di Carlo. Neppure un buongiorno.
« Mi stavo alzando, m’hai svegliato tutti, ci manca soltanto che il cane cominci ad abbaiare e ti strozzo».
« Te l’avevo detto che telefonarti è l’unico modo. Dobbiamo fare così, sarò la tua sveglia che suona fino alla risposta. Ti aspetto, forza, che io ho già preso il primo caffè».
Dopo mezz’ora eccolo sotto casa mia.
Carico le canne e il sacco con pranzo, una borraccia d’acqua, una bottiglietta di vino, gli strumenti da pesca. Attacco i bachini al braccetto del retrovisore della Cinquecento e via.
« Dài, che è quasi giorno, ci perdiamo sempre i momenti migliori».
« Che palle che sei Orazio, nottata andata male?».
Caffè e cornetto, quando il bar sulla strada era già aperto, sennò via verso la Selva, con la Cinquecento celeste di Carlo, sportelli a vento, il meglio per arrivare il più vicino possibile al fiume, che stava in basso rispetto alla strada, centinaia di metri di pendenza, agevoli di mattina presto e in discesa, faticosi a fine giornata, carichi sempre di stanchezza e qualche volta di prede.
Erano tre anni che sceglievamo il mercoledì come giorno libero dal lavoro e andavamo a pesca insieme, io e quel mio amico fraterno. Da marzo a giugno, tutti i mercoledì, con qualsiasi tempo, se l’acqua era abbastanza pulita per pescare, non sporcata da qualche piena nei giorni precedenti.
Quella mattina non ne potevo più dei suoi ritardi. Mi ero svegliato a notte fonda, alle sei e mezzo già ci si sarebbe stata luce e a quell’ora volevo essere arrivato almeno alla discesa verso il fiume. Era annunciata una giornata soleggiata e a marzo si cominciava a stare bene, a parte le prime ore del mattino, ancora fredde. Ma così, tra una cosa e l’altra, non avremmo cominciato a pescare prima delle sette e mezzo.
Carlo ed io eravamo amici da una decina d’anni. Generoso, tranquillo, simpatico, una compagnia distensiva. Io al contrario, almeno così mi dicevano, ero sempre di corsa, insofferente, poco tollerante e la mia puntualità esasperata, che ho sempre coccolato come una nota positiva del mio carattere, devo riconoscere che rifletteva quell’agitazione. La comune passione per la pesca ci aveva creato un’occasione in più per stare insieme, noi due e le nostra famiglie. Io e Carlo ci volevamo bene.
Come sempre, arrivavamo al punto in cui si doveva abbandonare l’auto che il sole era sorto e l’acqua del fiume, laggiù, scintillava zeppa di promesse.
Controllo che abbiamo preso tutto e giù per quel sentiero imbrecciato, pieno di buche profonde, che anche un trattore poteva percorrere a fatica. Tempo prima avevamo provato con la Cinquecento a scendere almeno fino a un pianoro più vicino al Paglia, ma ritornare su fu un’impresa dura, con la macchina che slittava e io fuori a spingere, sfiancato. Esperienza mai più ritentata.
Arrivati al punto del fiume che avevamo eletto a riferimento, lasciamo sulla riva, attaccato a un cespuglio, il materiale che non sarebbe servito, tanto non c’era nessuno in giro. La colazione nella tasca dietro del giubbotto, ispezione del materiale da pesca e ci lasciamo.
«Se ci allontaniamo tanto da non vederci più, diamoci un fischio prima. Comunque ci vediamo qui a mezzogiorno», ricordo a Carlo. Io vado subito verso i miei sassi, con ansia, come se qualcuno potesse insidiare mio posto. Lui dal lato opposto a un centinaio di metri, per far correre l’esca sotto una vetrica che si piegava sul fiume, nella riva opposta. Tra noi c’era uno scoglio che attraversava il Paglia quasi per tutta la sua larghezza, tagliato dove l’acqua prendeva velocità e la corrente rapida non consentiva di pescare con la canna corta, che era la nostra preferita. Il sole splende su quello spettacolo straordinario, abbacinante, un punto fermo nelle immagini serene della mia vita. La collina di fronte a noi, coperta dai raggi ancora troppo bassi, è bianca per la brina. Sto bene.
Lancio l’esca a monte, guidandola intorno a un sasso che emerge in parte. La tengo tesa e il galleggiante sensibilissimo, colorato di rosso fosforescente in punta, è la sola cosa che ho negli occhi e nella testa. Un giro va a vuoto, rilancio, prima della fine della corsa il galleggiante prende un mulinello e scompare voltandosi verso di me. Tiro e aggancio. La canna corta, il filo sottile, l’amo piccolo sono dalla parte del pesce ma anche l’affermazione della mia abilità, la sfida .
Il barbo si lancia verso il fondo e resiste seguendo la corrente. In un minuto o due porto all’aria il muso e lui si divincolava tentando qualche ficcata, ma siamo troppo vicini e alla fine lo catturo alzando la canna con il braccio teso, per seguire la curva provocata dalla mia preda e ammortizzare la sua forza. Infilo il pesce nel guadino. Bello, proprio un bel barbo, un gran combattente. Con attenzione lo prendo sotto le branchie e lo slamo. Poi nel cerignolo, che tengo in acqua dietro di me, fermato da un bastone infilato nella sabbia, stretto tra alcune pietre. Una giornata piena di promesse.
A mezzogiorno ci incontriamo con Carlo nel punto dove siamo scesi dalla strada. Anche lui ha belle catture, ha un cavedano di oltre il chilo, e comincia a prendermi per i fondelli. Non abbocco e mi complimento. A pranzo pane e frittata, che è la colazione che non ho mangiato, un paio di fettine fritte, una sorsata d’acqua e di vino. Due o tre sigarette alla solina, qualche chiacchiera, quasi sempre di donne, e poi di nuovo lungo il fiume, almeno altre tre o quattr’ore, ciascuno per sé. Una gran scarpinata per arrivare all’auto, stanchi, con la testa vuota, negli occhi il galleggiante e i rigiri d’acqua e i pesci presi e quelli sfuggiti.
Torniamo a casa parlando della giornata e del prossimo mercoledì.
Con Carlo ho vissuto almeno una decina d’anni in un rapporto frequente e intenso. Avevamo tempo libero e stavamo insieme. Passeggiate, corsette, pesca, acquisti, scampagnate e soprattutto tante chiacchierate, su tutto. Un’amicizia facile, perché la pensavamo nello stesso modo quasi su tutto, non so quanto influenzati l’uno dall’altro. Cedevamo su qualche idea e ci allineavamo con agilità e poco impegno. Maria, sua moglie, era mite e silenziosa e si adattava alle scelte di Carlo e alle mie, così come mia moglie. D’altra parte qualsiasi attività teneva conto dei loro gusti, quindi non c’erano motivi di dissidio e quando c’erano li appianavamo con destrezza, cedendo subito e mettendo da parte un bottino di disponibilità che resisteva un bel po’ in quello scambio sereno. Insomma, proprio bei tempi.
Qualche anno fa camminavo con un amico lungo quella strada della Selva e decidemmo di scendere verso il fiume, dove non andavo da sette otto anni. Lo scoglio che tagliava il fiume per quasi tutta la larghezza non c’era più e neppure il mio sasso, il fiume si era allargato, non riconoscevo il posto, provai malessere e dispiacere. Il fiume aveva cancellato il mio luogo dell’anima.
Ma quel sasso è ancora nella mia mente e quando cerco pace vado lì, in quei momenti e in quello spazio, e il cuore si gonfia, il respiro è tranquillo, il pensiero lucido. Il fiume è illuminato dal sole e i riflessi ne cambiano il colore, nell’aria è il profumo delle vetriche e il rumore della corrente.
Qualche volta vedo Carlo, ma sempre più raramente. Le nostre vite sono cambiate da tanti anni, ognuno di noi ha intrapreso vie più impegnative, il tempo libero si è rapidamente ridotto, non c’è stato più spazio per la pesca o le vagabondate. Abbiamo saltato qualche appuntamento, poi non ci siamo più visti se non in rare occasioni, incontri tra amici comuni, qualche festa. Della nostra amicizia è rimasto un affetto che sta abbarbicato dentro di me e che emerge ogni volta che lo vedo. Le prime parole sono sempre il ricordo di quelle stupende giornate che ci avevano regalato la gioventù, la spensieratezza, la natura incantevole dei nostri luoghi.
Ho cancellato interi anni, trascorsi senza nulla da ricordare, ma quelle giornate affollano i ricordi e i loro riverberi riempiono ancora la mia vita.