di Dante Freddi
« Guarda che prato di fratini. Sono funghi che mi piacciono perché si trovano a capannelli, passeggiando, senza infilarsi nella macchia fitta. E poi sono buoni. Aglio, olio, peperoncino e una spruzzata di limone se si servono su crostini di pane bruscato. Il limone è importante». « Te li colgo anch’ io, non mi piacciono, io soltanto porcini e ovuli, il resto non vale neppure la pena di abbassarsi. Ma se ti piacciono…», rispose Avelio al giovane compagno di passeggiata, in quel bosco infilato in una vasta riserva naturale tra Umbria e Lazio.
« Vedi quel casolare? è mezzo diroccato ma un tempo era bello, robusto, ci abitava una famiglia grande, coltivavano grano, olivi, vigna, legumi, avevano animali. Poi c’era questo bosco di cerque, là i castagni. Tutti questi pini sono stati piantati dai prigionieri austroungarici della prima guerra per rimpiazzare gli alberi tagliati. Ma non c’entrano niente. Vedi, sporcano il paesaggio. Io qui ero di casa».
«Tu che venivi a fare così lontano da Castello? », chiese Furio.
« Venivo a tagliare il bosco, dopo la guerra, a fare il mio mestiere, l’unico che conosco. Io non sono un contadino, sono un boscaiolo, come tanti nel mio paese. E poi non è così lontano da casa, a piedi basta meno di mezza giornata per arrivarci, se il Paglia non è pieno. È che il bosco si taglia d’inverno e spesso l’acqua era tanta e allora toccava camminare di più per cercare un guado, anche levando scarpe e pantaloni.
Quell’anno lì a casolare Bandino venivamo a ballare il sabato, quando non si poteva andare a casa.
Si riunivano due o tre famiglie dei poderi vicini, stavamo a veglia, c’erano donne. Uno che suonava l’armonica o la fisarmonica c’era sempre.
Io mettevo il vischio ed ero bravo. Uccelletti per la polenta non mancavano mai nella cena del mio campo. Avevo questo incarico, perché il padrone del taglio forniva la farina per la polenta ma non il companatico.
Casolare Bandino si chiamava così da cent’anni. Ettore Bandino lo aveva avuto in contratto dal principe e i suoi figli e i figli dei figli da allora lo coltivavano faticosamente, ricavandone appena di che campare.
Ci avevano mangiato anche due famiglie Bandino in quel podere. Sempre a inventare il companatico, ma il pane c’era sempre in queste campagne. Il libretto su cui si tenevano i conti con il principe, proprietario di quel feudo, era aperto da un secolo e non era mai stato fatto il conto del dare e dell’avere. I fattori che si erano susseguiti in quel tempo avevano lasciato le cose come stavano, a vantaggio del principe e dei suoi eredi. La vita era dura, in campagna e più nei paesi, dove il pane non c’era tutti i giorni per tutti.
Nel mio paese eravamo così poveri che il principe aveva regalato una pecora a ogni famiglia e tutta l’economia era intorno a quell’animale. La fame stagnava in quasi tutte le famiglie e restava lì per anni e anni, come una malattia. Ora ti racconto una storia vera avvenuta lì, nell’inverno del ’46, a gennaio o febbraio. Io c’ero.
Vieni, saliamo la scala, attento, è pericolante. Guarda che bella cucina che era. Lassù due o tre prosciutti attaccati e spallette, salsicce e salsiccioni, capocollo e lombetto che dovevano durare tutto l’anno.
Che arredamento straordinario! Quanta fame avevo! Il profumo era ovunque. Aglio, pepe, carne che maturava, la callara che bolliva con dentro un vecchio osso di prosciutto per la polentina, il vapore odoroso si spargeva nella cucina.
Quella sera era sabato, buio da poco, un freddo cane, il cielo sereno, la luce della luna raccontava quei boschi laggiù e quella collina chiudeva l’orizzonte. Facemmo la strada di buon passo, io, Fosco e Pietrino. Al campo era rimasto Giovanni, più perché non si sentiva bene che per sorvegliare le nostre cose, troppo povere per attirare qualcuno più disperato di noi. Avevo quasi duecento uccelletti tra tordi, fringuelli, passeri e qualcos’altro. Li avevamo spennati ma bisognava cucinarli, con olio, aglio e qualche pomodorino di quelli che si lasciano asciugare per l’inverno. Lo avremmo fatto al Bandino, insieme alla polenta cucinata con la farina delle nostre porzioni. Il vino lo metteva sempre Francesco di Bandino, il capofamiglia.
Francesco era un uomo di poco più di quarant’anni d’anni, robusto, mani ruvide, capelli castani, occhi neri e vivaci, simpatico, allegro, sempre pronto alla battuta, uno di quelli che tenevano l’ambiente allegro e briosa la veglia. Quel sabato era un giorno straordinario perché era tornato dalla Russia il figlio di Francesco, partito per la guerra due anni prima, appena sposato.
Giuseppe, così si chiama, vent’anni, era arrivato la mattina e nonostante due mesi di ospedale militare per potersi rimettere era ancora sfiancato dalla fatica del viaggio e dal dolore che aveva ficcato dentro per quello che aveva vissuto. Era riuscito a campare per il desiderio profondo e vitale di rivedere la sua sposa.
Giuseppe mi raccontò un giorno che la conservava negli occhi con l’immagine di quel giorno d’estate in cui si erano conosciuti, al podere Fiaschini, di cui era mezzadro il padre di Paolina. Aveva un vestitino leggero, a fiori, allacciato davanti. Quando sedeva, tra i bottoni si scorgeva qualche macchia di pelle bianchissima, sensuale, provocante. Giuseppe fu conquistato con tre occhiate da quella radiosa ragazza, una delle più belle di quei poderi. Alta, armoniosa, una criniera nera e selvaggia, labbra carnose, sguardo sveglio, attenta a ogni movimento intorno a lei, di persone, atmosfere, parole.
Il suo sguardo si era incontrato più volte con quello di Giuseppe in quel giorno di mietitura e l’attenzione era diventata tenerezza dopo pochi giorni e poi passione. Paolina aveva studiato in paese ospitata a casa della zia da parte di madre, moglie del daziere. Aveva frequentato tutte le elementari e a poco più di diciott’anni si era sposata con Giuseppe ed era andata a vivere a podere Bandino.
Dopo un mese dal matrimonio il marito era stato chiamato alle armi, mandato in Russia e fatto prigioniero quasi subito. Aveva combattuto poco ma sofferto molto e l’enorme carico di fatica e di privazioni si poteva vedere ancora nel suo corpo nonostante la guerra fosse ormai terminata da molti mesi. Magro, smunto, sfinito ma in lenta riconquista di vigore e voglia di vivere, era tornato con il desiderio di amare la sua Paolina e formare con lei la famiglia che aveva sempre desiderato e sognato, magari in un podere nel piano assegnato tutto a lui. Il fattore del principe poteva anche essere d’accordo e il suo ruolo di ex combattente sopravvissuto alla Russia poteva giovargli.
Quando entrammo nella grande cucina del casolare c’erano quasi tutte le donne in fermento, pronte a preparare fagioli con le cotiche e a mettere nel padellone gli uccelletti che portavamo noi. L’acqua per la polenta già era in bollore e Clara, la madre di Giuseppe, era pronta per versare la nostra farina di granturco.
A veglia c’erano anche altre due famiglie di mezzadri e Sante, uno di quelli, era pronto con la sua fisarmonica a iniziare la festa e provava impaziente qualche nota. Due lampade a olio poste ai due estremi del lungo tavolo fornivano una luce fioca ma sufficiente a rallegrare la cucina, insieme ai riverberi della legna che bruciava nel grande camino. Eravamo quasi pronti per mangiare, la roba era sul tavolo e noi stavamo seduti lungo le pareti, più vicini al fuoco, con i piatti in mano pronti a prendere la porzione di polenta e gli uccelletti, i fagioli e poi un po’ di quelle crostate appoggiate sul tavolo della credenza.
C’erano bottiglie di vino rosso e bianco. Sarebbe stata una gran baldoria. Francesco stava a capo del tavolo, come a controllare che tutti avessero da mangiare e da bere e commentava cibo e vino. Avevamo tutti preso da mangiare e gustavamo quel ben di dio, quando sentimmo una gran confusione e non facemmo in tempo ad alzare gli occhi dal piatto che le lampade furono spente da qualcuno e si sentivano sedie che cadevano, urla, gente che si alzava dalla sedia e sbatteva addosso a qualche altro: “Che succede? Chi ha spento le lampade, che succede, che succede?”. “Francesco è a terra e sanguina. Cosa ti sei fatto Francesco, parla, cosa ti sei fatto. Dove sei ferito? Francesco, Francesco!”. Dal fuoco del camino veniva una luce incerta, che segnalava le persone, che però non si riconoscevano. Piatti a terra. Pensavo a quanta fatica per catturare gli uccelli e a quello spreco di polenta. Ma forse, rimuginavo, si poteva recuperare.
Qualcuno accese un fiammifero e poi una lampada e poi altre urla. Francesco stava a terra immerso nel suo sangue, esanime. Lo avevano accoltellato al petto.
Giuseppe stava appoggiato al muro, vicino alla porta, con in mano un coltello da cucina e Paolina reggeva una delle lampade spente. Tutti si guardavano cercando di capire cosa fosse accaduto quando Giuseppe gettò vicino al padre il coltello insanguinato. Non fece nulla per scappare, si sedette con gli occhi bassi e Paolina gli si accasciò vicino. La madre di Giuseppe piangeva accanto al corpo del marito ma non si rivolgeva al figlio, neppure lo guardava. Quei momenti durarono un tempo infinito, sospeso, senza che qualcuno intervenisse, perché tutti avevano capito.
Giuseppe aveva accoltellato il padre. Gli si era accostato da dietro e gli aveva infilato quasi tutto il coltello nel petto. Lui era caduto portandosi dietro una pentola e dei piatti. Quelli vicino a lui si erano alzati scompostamente e nel buio erano cadute altre sedie. Tutti stavano in piedi, accostati al muro. Poi gli uomini si erano avvicinati a Giuseppe e dopo un bel po’ Sante uscì per chiamare i carabinieri del paese, a un paio d’ore dal casolare. Arrivarono che era notte fonda su un camioncino e arrestarono Giuseppe e sua moglie.
Ci fu il processo dopo qualche mese e Giuseppe fu condannato a due anni, poi condonati. Paolina fu rilasciata. Fu stabilito che era stato un delitto d’onore e che Paolina, essendo quella che aveva subìto violenza, era vittima e non colpevole.
Le cose erano andate così: Paolina, appena tornato Giuseppe, gli raccontò che il padre l’aveva braccata per un anno e che poi, una sera dell’estate scorsa, l’aveva bloccata e violentata vicino alla fontana. Le aveva detto che se avesse parlato sarebbe stata cacciata dal podere e che avrebbe raccontato che l’aveva vista con un certo Silvano, un giovanotto di un podere vicino. Con quel ricatto la possedette più volte, senza che la ragazza potesse parlare. Suo padre non l’avrebbe ripresa con lui, Giuseppe era lontano, la suocera non contava nulla e se sospettava non avrebbe avuto la possibilità si ribellarsi. Così subì, fino alla mattina in cui Giuseppe tornò e insieme decisero di vendicare il loro onore. Lasciarono quel podere negli anni Sessanta e si trasferirono nel paese, lei bidella e lui operaio del Comune. Clara visse con loro fino alla fine».
« Che storia Avelio! Ma è vera? ».
« Vera come è vero il dolore, la violenza, l’amore, l’odio, la rassegnazione. Vera come la vita» .