di Gianluca Foresi
Assistiamo a un dibattito politico, che ormai si è spostato sui social, fra professionisti di vari settori, che hanno deciso, stanno decidendo, e purtroppo decideranno delle sorti di un bene culturale cardine della città di Orvieto: il Teatro Mancinelli. Al bando non doveva andare soltanto il Teatro Mancinelli, ma al bando dovrebbe essere messa una certa classe politica, che si attorciglia, come una scala del Pozzo di San Patrizio, come un filamento di DNA, intorno a questioni finanziarie, economiche e di bilancio.
Qui non interessano le responsabilità, qui non interessa di chi sia la colpa, che ha portato alla chiusura del teatro: quello che qui è in questione è sempre e solo comunque l’aspetto culturale, che a quanto pare all’interno del dibattito locale sembra non interessare questa classe politica, maggioranza e minoranza senza distinzioni. La ghigliottina è calata e la testa del condannato è rotolata fuori dal cesto, ma nessuno, e sottolineo nessuno, ha ancora proposto un progetto, un’idea, una visione da condividere con la città.
La pandemia è un paravento, il disastro era già compiuto, e non può essere il pretesto dietro cui trincerarsi per rimandare sine die l’apertura del teatro e l’avvio di una nuova stagione. Molte delle regole e delle norme da applicare già ci sono: andranno approfondite, perfezionate, ma non possiamo permetterci di attendere che diventino dei comandamenti scolpiti nella pietra. Intanto occorre immaginare, e come diceva Einstein l’immaginazione è più importante dell’intelligenza: cosa vogliamo che sia il teatro per la nostra città? Un simulacro? Un’urna vuota?
O vogliamo che il vuoto venga riempito, perché, per dirla con il pensiero orientale, è in quel vuoto che noi inseriamo ciò che ci sta a cuore, ciò che vogliamo conservare e proteggere. Rispediamo al mittente le parole di coloro che affermano di agire solo ed esclusivamente per il bene supremo della città e dei cittadini: assistiamo invece a uno squittire vergognoso, che non tiene conto, a dispetto delle affermazioni strumentali e di facciata, dell’interesse pubblico, di quello dei tanti appassionati di questo settore, degli operatori, dei lavoratori e degli artisti che vorrebbero solo tornare a godere, a vivere e a calcare un luogo, che è fonte di unione, crescita e sviluppo intellettuale e, perché no, imprenditoriale.
Il bene supremo è e sarà soltanto quell’atto che rimetterà nella disponibilità della cittadinanza tutta il teatro, ché quello è il bene, un bene però che senza le persone, senza gli attori nel senso più ampio del termine, ma sopratutto senza una lungimiranza progettuale rimane uno spazio morto.
Play, not play! Recitare, non giocare! Questa, cari amici, è una chiamata alle arti!