di Mirabilia Orvieto
Corpus Domini, Corpo del Signore, perfetta unità tra Divino e Umano, tra Sacro e Profano. Solo una città sospesa tra Cielo e Terra poteva rappresentare simbolicamente tutto questo. Lo sapevano gli Etruschi quando scelsero Orvieto per costruirvi il ‘santuario’ dedicato al dio supremo Voltumna (Zeus), come lo sapeva l’uomo medioevale quando decise di innalzare sulla rupe la grandiosa Cattedrale dedicata alla Madre di Dio assunta in cielo. Questo legame tra i due mondi, quello terreno e quello ultraterreno, divenne evidente a tutti quando il tragico evento della peste si abbatté dal 1346 in tutta Europa, causando milioni di morti. L’astronomo belga Simon Couvin ne parlò così: “Quando il re mise fine agli oracoli del giudizio, nacque la Morte Nera e le nazioni si arresero ad essa”.
In quei tempi, i corpi esanimi giacevano lungo le strade delle città per essere portati via ammassati sui carri. Dallo scontro serrato tra Morte e Vita si generò lo spirito sapiente dell’uomo medioevale che rispose agli oscuri eventi attraverso l’arte del ‘buon morire’, cioè la capacità o il dono di accogliere la morte ‘in pace con Dio’ e con se stesso. Da quel momento i cimiteri trovavano posto vicino alle chiese perché i vivi imparassero a convivere con la propria morte che, seppur terribile, diventava ormai una ‘compagna di vita’. Dalla Francia si diffusero presto leggende popolari, racconti e poemi ispirati all’Incontro dei vivi con i morti.
I monaci del monastero di Montserrat inventarono allora la ‘Danza macabra’ o ‘Festa della morte’ riportata nel manoscritto ‘Libre Vermell’ dove i religiosi, esperti nell’arte di saper unire la vita terrena con quella spirituale, descrivono un suggestivo rituale, a metà tra religiosità e folklore, che veniva insegnato ai pellegrini la sera dell’arrivo al monastero per festeggiare la fine delle fatiche del viaggio e le delizie spirituali del giorno dopo. Era una sorta di gioioso girotondo, accompagnato da cornamuse e strumenti a corda, che durava tutta la notte. L’allegro corteo venne anche raffigurato in un affresco della chiesa di san Virgilio (Trentino) dove scheletri beffardi invitano ad un ballo i vivi impauriti, resi tutti uguali di fronte all’ineluttabilità della morte: ci sono un papa e un cardinale, un vescovo e un sacerdote, un frate e una monaca, un re e una regina, un giovane ricco e un mendicante, un vecchio e un bambino, ognuno preso per mano dal suo scheletro.
Con l’ironica danza si voleva esorcizzare il potere del Tristo Mietitore che, attratto dal ritmo incalzante di musica e canti, avrebbe rinunciato al suo lugubre intento per unirsi alla festa che avrebbe trasformato la paura in gioia, la superstizione in grazia:
“Io sono la morte e porto corona,
di tutti voi signora e padrona.
E così sono crudele così forte sono e dura
che non mi fermeranno le tue mura
e davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare.
Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo,
posa la falce e danza tondo a tondo,
giro di una danza e poi un’altra ancora,
e tu del tempo non sei più signora”.
(Ballo in fa diesis minore di Angelo Branduardi)
Giunti all’alba i pellegrini entravano in chiesa per inchinarsi di fronte all’altare. Qui la danza si convertiva in preghiera che disponeva gli animi al nuovo giorno in cui ognuno avrebbe ricevuto, con la confessione dei peccati, il perdono e la comunione con Cristo:
“Ben presto avrà termine la nostra vita:
la morte accorre rapida e non rispetta nessuno.
Ma se contempliamo come si deve la passione di Cristo,
se piangiamo lacrime di pentimento,
egli ci impedirà di peccare ancora
e ci proteggerà come la pupilla dell’occhio”.
(Libre Vermell)
La fascinazione delle leggende entrava così nell’immaginario popolare, riuscendo a creare un legame salvifico tra questo mondo e l’aldilà. Ora il Sacro non si contrapponeva più al Profano, anzi la presenza di Dio entrava a far parte della vita dell’uomo, aiutandolo nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Quando giunse la peste ad Orvieto, la città non si fece abbattere dal cosiddetto ‘castigo’ divino, anzi il desiderio di completare la maestosa cattedrale si fece ancora più grande portando gli orvietani a costruire una nuova cappella, quella del Corporale, per custodire la preziosa reliquia del miracolo di Bolsena.
Qui la scena della crocifissione, affrescata dietro l’altare, doveva svelare il senso profondo del potere dell’Eucarestia, ‘farmaco d’immortalità’. Infatti, durante la Santa Messa, in un’atmosfera mistica e solenne, il Salvatore del mondo continuava a versare il suo sangue che raccolto dagli angeli nel calice eucaristico veniva simbolicamente consegnato nelle mani del sacerdote, per essere poi mostrato ai fedeli in adorazione: l’assemblea innalzava allora l’inno liturgico dell’ ‘Anima Christi’ perché dalle piaghe del Signore essi – come recita la preghiera – sarebbero stati santificati, inebriati, lavati, purificati, fortificati e difesi dal nemico.
Nel dramma storico di un mondo travolto dalla peste, il Corpo del Figlio di Dio plasmava così l’anima religiosa dell’uomo di quel tempo, diventando il luogo più sicuro, il vero rifugio per trovare non tanto una salvezza corporale, affidata al volere di Dio, ma soprattutto per assicurarsi la salvezza dell’anima nell’aldilà. Sul monte Golgota sono, infatti, raffigurati i due ladroni colti nell’istante della loro morte: l’anima di quello ‘buono’ esce dal corpo, pura e innocente, rivestita di una veste bianca, per essere condotta da un angelo in paradiso; mentre quella del cattivo ladrone, terrorizzata dal destino che l’attende, è strappata via da un demone per la bocca. Sotto la croce Maria piange la morte del Figlio ma prega anche per il destino, dopo la morte, della sua anima la quale “uscendo dal corpo – racconta Iacopo da Varagine – trovi grazia ai suoi occhi e non veda nessun spirito maligno andargli contro”.
Attraverso le piaghe di Cristo, fessure spirituali dell’anima e fonte d’umanità, gli uomini potevano entrare nel ‘cuore’ di Dio e trovare il santo conforto della vita, nella speranza di essere un giorno accolti in cielo allo stesso modo del ladrone penitente che, in punto di morte, udì dal Signore le parole della salvezza eterna: “Oggi sarai con me in Paradiso”. È racchiuso qui il significato della festa del Corpus Domini nell’antica Orvieto. Dallo ‘squillo argentino delle trombe’ alla solennità dei canti gregoriani, dalle insegne gloriose del Comune ai simboli della cattolicità, lo sfilare lento e ritmato della processione lungo le vie cittadine, immagine del cammino terreno dell’umanità, rievoca la dimensione eterna della Storia che misteriosamente racchiude in sé l’inscindibile legame tra Sacro e Profano, tra Cielo e Terra, tra ciò che è Visibile e l’Invisibile.