Articolo di #LilliKnowsItBetter (alias Liliana Onori @cipensailcielo)
Stavolta non c’è nessun film da cui partire, né tantomeno un libro. E non c’è nemmeno una canzone. Però, no, forse una canzone ci sta. Anzi, a pensarci bene, in parte è proprio da una canzone che, in qualche modo, è iniziato tutto. Più che di una canzone, si tratta di una sigla, quella di un cartone animato degli anni ‘80, ispirato ad un manga giapponese, che tutti quelli della mia epoca, ma anche quelli un po’ più grandi e quelli che sono venuti dopo, conoscono sicuramente. KENSHIRO.
In Italia, il personaggio è conosciuto soprattutto come Ken il Guerriero e la sua storia è ricca di requisiti riconducibili ai distopici più famosi. In un futuro post apocalittico, che ricorda molto gli scenari della saga cinematografica di Mad Max, la civiltà ha collassato e la devastazione ambientale ha reso il mondo un deserto arido e sono pochi quelli sopravvissuti alle guerre atomiche. Kenshiro, 64° successore della Divina Scuola di Hokuto, una tecnica micidiale di arti marziali che si basa su colpi mortali sferrati in determinati punti del corpo in grado di disintegrarlo in esplosioni di luce dovute alle radiazioni assorbite, si fa protettore dei pochi popoli rimasti sulla Terra. Hokuto è una parola che indica le sette stelle che compongono il Grande Carro dell’Orsa Maggiore. E sette sono anche le stelle che Shin, allievo dell’avversaria Sacra Scuola di Nanto, ha impresso con le dita sul petto dello stesso Ken dopo aver rapito la sua amata Julia, disponendole proprio secondo l’ordine della costellazione. Una volta guarito dalle profonde ferite, Ken si mette alla ricerca della sua donna e, lungo la strada, il suo destino di eroe si compirà appunto nella difesa dei sopravvissuti contro le bande di teppisti che saccheggiano i loro villaggi depredandoli di tutte le risorse. Diventerà il loro guerriero, il loro Uomo delle Sette Stelle. La loro speranza. Ken è un personaggio profondamente triste, ferito più nell’animo che nel corpo, e la sua storia, con tutto quello che comportava, ha segnato l’infanzia di noi ragazzini. All’apparenza violento, in realtà Kenshiro è un cartone animato sull’amicizia, l’amore, l’onore e la giustizia, insegna a proteggersi l’un l’altro, a difendersi e ad essere una famiglia, anche lì dove non ci sono legami di sangue a costituirla.
Molti di questi valori, io li ho ritrovati nella Kick Boxing. In parte, incredibilmente proprio grazie a Kenshiro.
L’unico sport a cui io mi sia mai appassionata nella vita è stato lo spinning e l’ho praticato con amore estremo fino a che non mi sono rotta il ginocchio destro in modo irreversibile, tanto da dover rinunciare alla bike per sempre. Quando è successo, il mio cuore si è spezzato. Mi accadeva qualcosa quando salivo sulla bike che non è facile da descrivere a parole. Era come scatenare me stessa da me stessa. Non ci stava più niente intorno a me, né dentro di me, era come se una porta venisse spalancata all’improvviso e la luce entrasse tutta di botto. Una sensazione bellissima a cui rinunciare non è stato per niente semplice. A lungo ho creduto che non avrei mai più trovato qualcosa che mi facesse sentire felice come lo spinning e per tantissimo tempo è stato così. M’ero quasi arresa, poi ho deciso di iscrivermi a Kick Boxing perché, a quel punto, volevo solo uno sport che mi aiutasse a sfogare tutta la rabbia che mi portavo dentro e pensavo che un paio di guantoni e un sacco su cui accanirmi fossero proprio quello che faceva per me, ma devo dire che ho finito per trovare molto più di quello che stavo cercando, perché ho trovato Flavio, il mio istruttore.
La prima volta che mi ha allenata, per farmi capire che pensava fossi una tosta, mi ha guardata dritto negli occhi, mi ha puntato l’indice in faccia e mi ha detto: «Tu hai il cuore fatto a spigoli, ma tanto alla fine ce la faccio a smussartelo!». Io ho alzato un sopracciglio e mi ricordo di aver pensato che fosse matto, ma più il tempo passava, più cose mi insegnava e più cose imparavo, più mi appassionavo alla Kick. Perché è questa la prima cosa che Flavio mi ha insegnato: uno sport non va solo amato, ti ci devi appassionare e dedicare con tutto te stesso, con tutta la tua testa, con tutta la tua volontà e poi anche con tutto il tuo corpo. Nei due anni in cui sono stata sua allieva, Flavio mi ha insegnato che il ring e la vita hanno all’incirca le stesse regole, che se trovi il giusto equilibrio neanche un sacco che ti viene lanciato addosso a tutta velocità può farti cadere, che in ogni lotta ci sono punti che puoi picchiare e colpi che sono falli da squalifica, che si deve sempre guardare l’avversario negli occhi perché, così come per le persone che incontri ogni giorno, è lì che sta la verità delle azioni ed è da lì che intuisci da che parte ti arriverà il pugno, che non si deve mai abbassare la guardia perché un colpo può sempre esserti assestato se non stai attento, che non devi mai far vedere all’avversario che sei sfinito perché tanto se sei stanco e lui ha più forza di te al tappeto ti ci manda lo stesso ma devi comunque provarci perché, chissà, magari te la cavi, che in un combattimento non puoi solo attaccare e che prima di imparare a colpire devi imparare a difenderti perché, il più delle volte, il tuo avversario è più cattivo di te, che se finisci alle corde è difficile che tu possa uscirne ma che se sei senza forze e hai bisogno di un attimo per respirare basta fare un passo indietro e le corde possono essere la tua salvezza per riprendere fiato, che il controllo della potenza sta tutto nella testa e non nella mano con cui si colpisce e che schivare i pugni a vuoto costa più energia di incassarne uno, anche se dato forte.
Nel film di Clint Eastwood, Million Dollar Baby, il personaggio interpretato da Morgan Freeman dice che la boxe è qualcosa di innaturale perché è uno sport in cui si fa tutto al contrario, in quanto, invece di allontanarsi dal dolore come farebbe qualunque persona sana, gli si va incontro, e per due anni, infatti, in molti mi hanno detto e ripetuto che mi ero scelta uno sport violento, ma io ho sempre risposto facendo spallucce e dicendo che magari era pure vero ma che malgrado le nocche sbucciate, i lividi, i tendini strappati, le ossa fratturate, i muscoli doloranti, le spalle che bruciavano per la fatica di tenere le braccia alzate, il sudore che colava negli occhi facendoli pizzicare e i mal di testa per i pugni e i calci presi in faccia, valeva la pena continuare e che loro non potevano capire il valore che avevano tutte le ore passate insieme in quella sala, le bottiglie di acqua condivise a lezione (le MIE bottiglie di acqua, per la precisione), le risate, gli scherzi e la sigla di Kenshiro che apriva la playlist di ogni nostro allenamento. È stato proprio scoprendo di essere tutti e due cresciuti guardando il suo cartone animato che io e Flavio abbiamo trovato un primo punto di incontro, diventando così amici. È stata tutta colpa di Kenshiro, quindi!
Nonostante tutte le volte che ho alzato gli occhi al cielo sbuffando di stanchezza, quelle in cui gli ho detto che lo odiavo (…vi assicuro che dopo due ore passate a incassare calci e pugni non riuscite più nemmeno a provare amore per vostra madre, figuratevi per il vostro istruttore!), tutte quelle in cui, sfinita, ho buttato i guantoni a terra pensando di andarmene, quelle in cui mi sono rifiutata di battermi sul ring, lui non ha mancato una sola volta di prendermi per il collo, di scrollarmi come si fa coi gatti e di dirmi che era fiero di me e che da me non si aspettava niente di diverso se non che arrivassi sempre fino alla fine perché, diceva, lui non mi allenava per fare di me un’atleta, ma per farmi superare i miei limiti un pezzetto di più ad ogni lezione. Perché è così che si diventa veri campioni, secondo lui, superando i limiti, senza paura, senza tirarsi mai indietro. È stato questo che mi ha portato a non mollare mai, anche quando il dolore era troppo da sopportare e pensavo che fosse arrivato per me il momento di lasciar perdere la boxe. Ma non l’ho fatto. In fondo, alla fine le nocche si rimarginavano sempre, le ferite guarivano, le ossa si risaldavano e il dolore era solo dolore e col tempo passava.
Mike Tyson dice che il ring è il posto più bello del mondo perché lì sai sempre quello che ti può capitare. E solitamente sono le botte le cose che ti capitano. Eppure, c’è di più su quel ring, non solo dolore, sudore e fatica. C’è disciplina, concentrazione, sopravvivenza in un certo senso e anche una buona dose di fortuna, che non guasta mai. E poi, benché sia uno sport individuale, c’è sempre la squadra, i compagni con cui ti alleni, con cui ti batti, con cui impari a stare sul ring. Flavio ha preso sei estranei e li ha fatti diventare una squadra e poi una famiglia. Ci ha insegnato che è la squadra l’unica cosa che conta, quindi non importa dove ti alleni o quali siano i mezzi a tua disposizione per farlo, l’importante è restare uniti, non scordarsi mai che si è una cosa sola. Perché sul ring sei solo, è vero, ma fuori da là, no. Fuori, hai bisogno della tua squadra. Hai bisogno di qualcuno che stia all’angolo con te, che ti sostenga e che, quando è il momento giusto, getti perfino la spugna per salvarti perché ci sono pugni che non puoi schivare, devi incassarli e aspettare pazientemente che la botta passi, sperando che non lasci cicatrici troppo profonde.
Essendo tutto partito dalla sua canzone, è quindi la sigla di Kenshiro la canzone che voglio abbinare all’articolo, stavolta. Una sigla che racconta la paura nell’attimo in cui la terra ha tremato per le esplosioni atomiche, un attimo indimenticabile, spazzato però via da un uomo ‘’sceso come un fulmine dal cielo, grazie al quale nessuno è mai più stato solo.’’
Flavio ci ha resi come le stelle dell’Orsa Maggiore, sette elementi che, da soli, non hanno senso, mentre insieme sì.
E allora forse non è giusto dire che è stata tutta colpa di Kenshiro. Forse, è stato il suo merito.
#LillyKnowsItBetter è la rubrica ideata e curata da Liliana Onori, l’autrice di Come il sole di Mezzanotte, Ci pensa il cielo e Ritornare a casa (ed. LibroSì). In collaborazione con LibroSì Lab, Liliana ci racconta dal suo particolarissimo punto di vista di bibliotecaria e soprattutto di abile narratrice di storie, cosa ne pensa di libri, fiction, personaggi e molto altro. Seguila anche sul suo canale Instagram: @cipensailcielo