di #LilliKnowsItBetter (alias Liliana Onori @cipensailcielo
“Se imbocchi il vicolo giusto a Sin City, puoi trovare di tutto!”. E di solito, a Sin City, questo tutto non significa mai qualcosa di buono. Il peccato è l’anima di questa città. Corruzione, prostituzione, crimine, violenza e lussuria sono solo alcuni dei mali che la depravano.
Basin (Sin) City è un luogo immaginario nato dalla matita di Frank Miller che fa da scenario ad una saga di fumetti completamente realizzati in bianco e nero che raccontano le storie folli e parzialmente inverosimili dei suoi abitanti. È una città violenta, marcia fino alle fondamenta che, come un’Arcadia, si erge su un mucchio di immondizia, perché tutto quello che Sin City non può corrompere, lo insudicia. I suoi governatori, i suoi preti e addirittura i suoi poliziotti si macchiano dei peggiori vizi. Non c’è spazio per l’onore a Sin City o per il pentimento, né tantomeno per la redenzione e la salvezza. Ci sono solo peccati a profusione e peccatori. Peccatori che si macchiano di aberranti azioni, forti del fatto che la città stessa si volterà dall’altra parte perché a Sin City tutto è permesso. Anzi, sono proprio i peccati a far agire i personaggi. Eppure, un piccolo barlume di umanità c’è e resiste perfino nei bassifondi più bui della città e negli animi più neri di alcuni dei suoi abitanti. C’è il tenente John Hartigan che salva la piccola Nancy, una bambina di undici anni rapita dal perverso figlio del corrotto e privo di scrupoli Senatore Rourke; c’è Marv, un bestione sfigurato fatto di muscoli e pazzia allo stato più puro possibile che vendica la morte della sua amata Goldie; c’è Dwight, reporter di una rivista scandalistica, che protegge la cameriera Shellie dalle angherie del disonesto poliziotto Jackie Boy; ci sono Gail e le sue letali prostitute nella parte più malfamata della città, la Città Vecchia, dove nemmeno più la polizia ha giurisdizione ma dove sono loro a mantenere la legge e l’ordine. Personaggi non privi di scheletri nell’armadio che viaggiano sempre sul filo della legalità o, meglio, che la piegano alle proprie esigenze.
Dai fumetti, il regista Robert Rodriguez ha tratto due film omonimi che mantengono lo stile noir, essenziale ma profondamente hard boiled del fumetto di Miller. Tutto sembra ruotare intorno alla luce e alla sua assenza. Eppure, qui la luce non è un simbolo, è solo un mezzo per vedere ombre più scure e dettagli raccapriccianti di crani fracassati e corpi mutilati a mani nude. Bianca e nera anche sullo schermo, quindi, Sin City non è un posto per i deboli. Qui i preti sono cannibali, le spogliarelliste sono spietate vendicatrici e la polizia ha un senso del tutto personale della giustizia. Sin City è l’inferno in terra, un luogo oscuro di perdizione da cui non si torna indietro, da cui non si rimane illesi, dove le sirene non sono mai un suono amico, dove nessuno è innocente e dove l’amore non conta un bel niente.
Il peccato
Leggendo i fumetti di Miller e guardando i film di Rodriguez, non potevo non soffermarmi a ragionare sul peccato e sulle sue connotazioni. E anche sulle sue conseguenze, ovviamente.
Secondo il vocabolario, il peccato è un atto in contrasto con la coscienza e con i principi riconosciuti dalla comunità religiosa di appartenenza, che crea uno stato di malessere definito senso di colpa. Il concetto di peccato, infatti, è strettamente legato a quello della religione tanto che viene definito un ‘gesto pericoloso’ proprio perché attira sul peccatore la maledizione della divinità offesa che richiede poi una sorta di espiazione affinché l’equilibrio turbato sia ristabilito.
Il Buddhismo, per esempio, basa il concetto di peccato sulla teoria di causa/effetto, la cosiddetta Coproduzione Condizionata che si esplica nel Karma che è, in poche parole, l’insieme delle azioni compiute in vita da una persona che si riflettono poi sul Samsāra che è invece il ciclo dell’anima che si reincarna tante volte fino ad aver espiato tutti i suoi peccati, fino ad aver esaurito il suo Karma, appunto. Il Karma è quindi la causa del destino dell’uomo. Una sorta di Hai quello che ti meriti mistico.
L’Islam professa invece che il peccato sia uno stato proprio dell’essere. Il Corano infatti dice che l’anima umana è predisposta al male in quanto il diavolo la lusinga in continuazione con la bellezza effimera del piacere.
Col Cristianesimo, la questione è ancora più complessa. Il peccato è fondamentalmente un’offesa a Dio, un allontanamento dalla sua legge eterna. Poiché i nostri progenitori biblici, Adamo ed Eva, mangiando la mela hanno dannato l’intera loro discendenza, noi nasciamo tutti già macchiati del peccato originale da cui veniamo purificati solo col Battesimo che ci restituisce una nuova vita, in un certo senso, una nuova dignità. Il peccato, per i cristiani, intacca la natura umana per intero e se ne riconoscono sostanzialmente due tipi: quello veniale che non priva l’anima della Grazia e che prevede una pena solo temporanea, e quello mortale che invece condanna l’anima all’Inferno. Famosi, a riguardo, sono i 7 vizi capitali: Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia e Accidia. Aristotele li chiamava gli Abiti del Male. Dante invece li punisce nel suo Inferno con la Legge del Contrappasso, un principio che regola la pena che colpisce il dannato mediante il contrario o l’affinità con la sua stessa colpa.
Nell’arte, Hyeronimous Bosh, pittore olandese del ‘500, raffigura i sette peccati capitali in un quadro (La ruota dei peccati) posizionandoli tutti in uno spicchio specifico con al centro l’immagine del Cristo che li giudica, mentre Michelangelo, col suo Giudizio Universale, ha affrescato la Cappella Sistina con una delle più grandi rappresentazioni sacre dell’arte occidentale.
Gli antichi greci parlavano di Hybris, un atto di superbia, un’azione ingiusta avvenuta nel passato che produce conseguenze negative sulla vita presente di una persona, e che è infatti associato a Nemesis, la vendetta, che è di contro la conseguenza di questa azione, lo scotto da pagare, praticamente.
In filosofia si trova un’infinità di trattati di morale. Il più affascinante in cui mi sono imbattuta è la Genealogia della morale di Nietzsche in cui, stringando al massimo il discorso (e sperando di aver interpretato al meglio il suo pensiero), il filosofo spiega che l’uomo nasce libero di optare per il bene o per il male ma che il senso di colpa sia fondamentalmente un sentimento innaturale in quanto ogni uomo, nel momento in cui prende una decisione e agisce, sta solo attuando la sua natura, sta esprimendo la sua volontà di potenza. L’uomo quindi manifesta la sua natura attraverso l’azione, ma in seguito al sovvertimento dei valori a opera degli uomini più deboli, quelli incapaci di esprimere la propria volontà di potenza (definiti uomini del ressentiment), nasce quel sentimento di colpa che, secondo Nietzsche, conduce a una repressione forzata e preventiva della natura umana.
In ambito cinematografico, mi vengono in mente due film che rappresentano perfettamente il tema del peccato: Seven, di David Fincher, e L’avvocato del Diavolo, di Taylor Hackford, in cui il monologo finale di Al Pacino nel ruolo, appunto, di Satana, è un’apologia del peccato contro le costrizioni e i divieti di un Dio che si fa beffe dell’uomo lasciandogli il libero arbitrio ma punendo poi le sue azioni. Non si possono però ignorare pellicole come Kill Bill di Tarantino, per l’ira della protagonista che cerca la sua vendetta, La fabbrica di cioccolato di Willy Wonka di Mel Stuart che simboleggia invece la gola o Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, per la lussuria.
I peccatori
Al di là della filosofia, della religione e della letteratura, dei film e delle canzoni, rimangono le persone. Rimangono i peccatori. Sono loro che hanno davvero a che fare col peccato.
Mentre studiavo e facevo ricerche sull’argomento, mi sono interrogata parecchio su quello che io credo sia il peccato. Il peccato quello vero, però, quello che non c’entra niente con Dio ma solo con la nostra coscienza.
Il mio amico Francesco sostiene che il peccato non esiste così come lo intendono le religioni ma che sia solo un’azione brutta che noi commettiamo contro altre persone. Secondo lui, l’uomo non pecca mai in realtà contro se stesso, perché ci sono solo scelte che fa e scelte che non fa, tutto qui. Questa sua teoria mi ha fatto tanto pensare.
La tentazione
I peccati, in fondo, si offrono a noi in continuazione, ne siamo circondati. Abbiamo tutti la nostra mela che penzola dal ramo in attesa solo che ce la mangiamo e un affascinante serpente che ci spinge a farlo. Cerchiamo di resistergli con tutte le nostre forze, facciamo appello al nostro buon senso, alla nostra coscienza, alla paura del rimorso che potrebbe derivare anche da un unico morso, ma dire no a volte è troppo difficile, quasi impossibile. E le volte in cui lo è del tutto, cediamo. La tentazione ci sopraffà e noi cediamo. Non pensiamo a niente o forse pensiamo a tutto, ma riteniamo che ne valga comunque la pena, e che varrà la pena anche provare il possibile senso di colpa. Perché forse ci sono cose per cui davvero vale la pena rischiare tutto, e anche il tutto per tutto. Cose per cui vale la pena perdere persino se stessi.
Elbert Hubbard ha scritto che gli uomini non vengono mai puniti per i loro peccati, ma da essi. In parte, io credo che sia così. I nostri peccati ci condannano vita natural durante, anche quando sono stati compiuti senza remore, perché ritenuti giusti. C’è sempre un conto da pagare, dopo, in un modo o nell’altro, che sia il Karma, la Legge del Taglione (Occhio per occhio, dente per dente), il rimorso o il semplice pentimento, alla fine tutti dobbiamo compensare con una contropartita per redimerci. Ma ci sono peccati per i quali non possiamo aspettarci di essere perdonati. Per quelli si deve solo provare vergogna, aspettando che passi. Se passa, certo…
La tentazione spesso crea una frattura in noi. È come combattere una guerra noi stessi contro noi stessi. Una guerra che è impossibile da vincere. Forse però non dobbiamo combattere per forza, forse dobbiamo solo lasciarci andare. Forse, se quel peccato si offre a noi e noi ne siamo tentati al punto di giocarci l’anima, quel peccato noi dobbiamo commetterlo. Forse è un segno che le cose devono cambiare. O forse, è solo più facile raccontarsela così. Ci inventiamo attenuanti e scuse e volgiamo le circostanze a nostro favore per sentirci meno in colpa. In fondo, spesso si usa dire che un peccato è qualcosa che non va come sarebbe bello che andasse, no? A volte ti trovi solo nel posto sbagliato al momento sbagliato, invece, o, chissà, magari il posto e l’ora sono sempre quelli giusti.
Nesser Hakan sostiene che l’uomo è un animale con l’anima molto sporca ma molto bravo a lavarla. Mentre leggevo questa frase, però, mi è venuta in mente una battuta del Padrino-Parte III, pronunciata da un ormai vecchio e stanco Michael Corleone, che recita così: “La mia è un’anima irrecuperabile. A che cosa serve la confessione, se io non mi pento?”. Forse allora sta tutto qui. Forse, se proviamo vergogna e rimorso allora possiamo dire di aver commesso un peccato, mentre se non li proviamo, non è un peccato vero.
L’unica cosa certa è che non si può scappare da ciò che desideriamo, perché ci seguirà ovunque.
Io credo che esista un unico vero peccato, al di là di quelli canonici, ed è il tradimento della fiducia di chi crede in noi. Per quello, forse, non c’è perdono meritato. O forse, sì. In fondo, anche un filo strappato può essere riannodato. Ci vuole solo più tempo, magari, e tanta speranza che il nodo regga.
Quell’uomo sono io
La canzone che mi hanno ispirato tutti questi discorsi è The Unforgiven dei Metallica che dice: “This bitter man he is, throughout his life the same, he’s battled constantly, this fight he cannot win […] the old man then prepares to die regretfully. That old man here is me.” (“Questo uomo incattivito, che per tutta la vita ha combattuto costantemente una battaglia che non può vincere, si prepara a morire pieno di rimpianti… Quel vecchio uomo sono io.”). Forse le tentazioni sono come degli alleati a volte, ci mettono di fronte a scelte che ci svelano chi siamo davvero, di cosa siamo capaci, ci fanno capire che cosa conta sul serio e cosa non così tanto come invece credevamo. Forse ci danno solo la scusa, l’occasione e il coraggio di fare quello che davvero desideriamo o la risposta che cercavamo, più o meno coscientemente. Forse, è meglio morire col senso di colpa di aver peccato che col rimpianto di non averlo fatto. Perché, come ho sentito dire spesso, quando si diventa vecchi, i veri acciacchi li provocano i rimpianti.
Solženicjn, nel suo romanzo Arcipelago Gulag, scrive che la linea del bene e del male attraversa il cuore di ognuno e che, nel corso della vita, quella linea si sposta tanto che un uomo può arrivare a diventare completamente un’altra persona, perché dal bene al male ci sta la distanza di un unico passo. Ma quando però un peccato è davvero un male? E quando invece non lo è?
Gli ebrei utilizzano diverse espressioni per indicare il peccato e una di queste è mancare il bersaglio, inciampare e sostengono che un peccato chiami l’altro, per cui chi ha peccato una volta peccherà ancora. Ma chi lo sa se poi è davvero così? Alcuni peccano una sola volta, altri più spesso, altri praticamente mai, alcuni solo col pensiero, altri reiterano all’infinito mentre i più forti resistono, ma non possiamo essere tutti Jedi, in fondo. Alcuni devono essere Sith affinché ci sia equilibrio nella Forza.
Il peggiore dei peccati
Borges ha detto che il peggiore dei peccati è quello di non essere felici.
Credo che avesse ragione più di tutti gli altri.
#LillyKnowsItBetter è la rubrica ideata e curata da Liliana Onori, l’autrice di Come il sole di Mezzanotte, Ci pensa il cielo e Ritornare a casa (ed. LibroSì). In collaborazione con LibroSì Lab, Liliana ci racconta dal suo particolarissimo punto di vista di bibliotecaria e soprattutto di abile narratrice di storie, cosa ne pensa di libri, fiction, personaggi e molto altro. Seguila anche sul suo canale Instagram: @cipensailcielo