“In quei giorni, Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città della Giudea” (Lc 1, 39). Così l’evangelista Luca racconta la visita della Vergine alla cugina Elisabetta, subito dopo la notizia dell’angelo sul concepimento di Gesù ad opera dello Spirito. La futura madre del Salvatore sperimenta uno sconvolgimento tale che non riesce a frenare, a contenere, tanto da spingerla a mettersi subito in viaggio, a camminare in fretta, perché in fretta si appresta a vivere quello che Dio ha donato, una vita a lei e una vita alla cugina.
Ci sono due esistenze che si stanno facendo nel segreto del loro ventre e queste due donne ne gioiscono, e ne gioiscono in fretta, subito, quasi con impazienza, come se dovessero colmare lo spazio che ancora separa la vita quotidiana da quella che Dio aveva preparato per loro. Chi non sarebbe stato un po’ titubante, un po’ timoroso…un po’ lento, pensando che nella vita non bisogna farsi illusioni e che anche la cosa più bella e straordinaria è destinata prima o poi a tramutarsi in un fuoco di paglia. Maria ed Elisabetta però non ragionano così, non hanno paura di perdere nulla andando in fretta, non hanno paura di rimanere deluse, non temono per così dire la “fregatura”. Come Maria va in fretta, così Elisabetta all’istante riconosce chi la visita, cioè Dio stesso.
Anche nel seno di Elisabetta c’è un evento importante che le due donne vivono insieme e in cui sperimentano un mutamento di vita. La sfida consiste nell’avere la capacità di riconoscere che qualcosa di nuovo si muove dentro il proprio essere, fidandosi dei sentimenti che questo qualcosa evoca. Quasi sempre a prevalere è invece l’incapacità di aspettare e accettare che qualcosa di bello e di decisivo possa accadere, a volte non si ha neanche la forza di pronunciarlo perché considerato inopportuno, scomodo e magari menzognero. Maria ha osato sperare, ha osato credere, ha osato camminare in fretta, senza paure e preclusioni, proprio perché qualcosa le si stava muovendo in pancia. Non c’è da stupirsi della sollecitudine che pervade la fanciulla di Nazareth, una creatura dalla fede irreprensibile, perfetta, esemplare, frutto di una cieca fiducia in Dio. Facile, si direbbe, per la “serva del Signore”, molto più difficile per i comuni mortali chiamati come lei ad abbandonarsi totalmente senza fare domande o porsi interrogativi.
Ma per l’evangelista Luca la realtà è ben diversa. Maria infatti non capiva tutto e proprio per questo “serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Perché? Perché credere significa comprendere e comprendere è custodire nel segreto, dentro di sé, in attesa che qualcosa si illumini, si riveli pienamente. E’ questa l’essenza della fede, il pozzo profondo da cui attingere acqua ogni giorno. La madre di Gesù custodisce tutto dentro di sé, confrontandolo e meditandolo, al punto che – commentano i padri della chiesa – il suo cuore era come una fornace ardente in cui ella gettava tutto ciò che appariva, ai suoi occhi e alla sua mente, incomprensibile ed enigmatico. In questa “fornace” tutte le cose diventano, con il tempo, come carboni incandescenti che si illuminano fino a fondersi. Un’altra similitudine è quella delle pietre trascinate dal fiume; quando arrivano al mare esse sono a tal punto levigate da diventare addirittura luminose, portatrici di luce o specchio sul quale ci si può specchiare.
Credere allora non significa vivere nell’attesa di un’altra vita, quella di lassù, ma acquistare la capacità di penetrare, scoprire e vivere il mistero del mondo, quello stesso mondo che con tutta la sua forza palpitava dentro la vita di Maria e che Elisabetta ha saputo riconoscere. Maria non va in cielo, ma sale in Dio, origine e fine della vita: l’assunzione della madre di Gesù non è dunque la straordinaria conclusione della sua vita terrena, ma la normale conclusione di una vita straordinaria.
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