“E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio”
(Giacomo Leopardi – Le ricordanze)
di Gabriele Marcheggiani
Paolo Rumiz ha scritto che la piana di Castelluccio è la Shangri – La del romanzo di James Hilton, il luogo immaginario, un regno mitico che per lo scrittore inglese avrebbe dovuto trovarsi in Tibet. Rumiz – giornalista, scrittore a sua volta, editorialista de La Repubblica, autore di reportage di viaggio in ogni zona del pianeta – si è affacciato dal belvedere, dal passo poco sopra il rifugio Perugia, che lascia senza fiato ogni sorta di viaggiatore.
Dall’alto dei suoi 1567 metri, questa è la porta d’ingresso che spalanca la veduta di uno scrigno nascosto, un tesoro senza eguali in Italia e in Europa. C’è un trambusto da luogo affollato oggi, un via vai di auto, bus, moto che fanno somigliare questo luogo ad un qualsiasi passo dolomitico in agosto: e invece la pace ed il silenzio, vengono rotti solo per un breve periodo dell’anno, quando la piana si trasforma in un caleidoscopio di colori, in un’esplosione di tinte e sfumature che la rendono famosa ovunque.
E’ Lo spettacolo dei campi di lenticchia in fiore, ma non solo: tra le coltivazioni di farro e i gli immensi campi buoni per la fienagione, la fioritura è l’apoteosi del ciclo delle stagioni. Castelluccio è bella tutto l’anno, non c’è un giorno in cui sia meno bella del precedente o del successivo; credo che l’autunno in particolare, quando la piana e i boschi circostanti si vestono dei colori delle foglie che cadono e le cime dei Sibillini sono già coperte di neve, sia la stagione migliore da queste parti ma è questione di sensibilità.
Perchè qui gli occhi non bastano per vedere, Castelluccio è uno stato d’animo, un sentimento di amore del Creato che si compiace di sè stesso. E proprio in un giorno d’autunno di tre anni fa, dalle viscere di queste montagne silenziose, la forza bruta della Natura ha scatenato uno dei più forti terremoti registrati in Italia negli ultimi cinquant’anni.
Guardando Pian Grande dall’alto delle pendici di monte Guaidone e più in là, il severo contrafforte del Redentore, la montagna più alta dell’Umbria, rimane difficile credere che la Shangri – La descritta da Rumiz, possa essere una terra creata e plasmata dagli eventi tellurici, fin dalle epoche più remote. Marco, che con la sua creatura Amerini Trekking ha condotto qualche migliaio di escursionisti in giro per i sentieri di mezza Italia centrale, guida sicuro il suo gruppo, senza lasciare nulla al caso.
La giornata è calda anche quassù, seppure non si scenda mai sotto quota 1250 metri; la fiorita quest’anno è stata fugace, le condizioni meteo hanno raggiunto i due estremi nel breve volgere di un paio di settimane a cavallo tra maggio e giugno: prima la neve ed il gelo fuori tempo massimo, poi la siccitosa calura africana che non ha lasciato scampo neanche in montagna. Il Global Warming colpisce a fondo e ovunque. Marco, che di camminate e di cammini se ne intende, ha disegnato un percorso affascinante, una traversata completa di Pian Grande fin sotto l’abitato di Castelluccio ferito dal sisma ma non abbattuto. Il vuoto dove prima c’era qualcosa è un dolore profondo che non si allevia: uno sguardo in silenzio, l’ennesimo e poi via, verso sud est in direzione del tranquillo ed isolato Pian Piccolo.
Le ferite non si fotografano mai, le macerie non possono fare da sfondo a nessun selfie, occorre sempre rispetto per il dolore degli altri, in ogni occasione. Nessun passo è lasciato al caso, non c’è un metro di strada che Marco non abbia preventivamente percorso, segnato, mappato. Alla fonte delle Pantanelle un pastore solitario fa abbeverare il suo gregge: chissà se il conte di Recanati sa che anche sui suoi monti azzurri che delimitano l’orizzonte dal Colle dell’Infinito, ci sono pastori erranti che la sera magari parlano alla luna!
Un mondo senza fretta e senza tecnologia, è la disciplina della terra, come ha scritto Ivano Fossati, “sono i cani che guidano le pecore, tutti quei nomi dimenticati sotto la mano sinistra del suonatore”. Si suda, si parla, si resta assorti nei propri pensieri, la fatica ed il caldo cominciano a farla da padroni dopo quasi venti chilometri: camminare è un po’ come espiare i propri peccati, è una sofferenza che purifica, un dolore che fortifica, come sapevano i pellegrini medioevali che attraversavano l’Europa, da Canterbury a Roma, da Praga a Santiago de Compostela.
Il silenzio di Pian Piccolo contrasta con il rombo delle moto e il vociare dei turisti della domenica che affollano il Pian Grande. Castelluccio è una matrioska, non è un luogo definito, un tutt’uno, perchè al suo interno si celano microcosmi che a loro volta ne celano altri e altri ancora, basta lasciarsi andare, avere il coraggio di perdersi nel suo paesaggio ancestrale. La breve salita nel bosco chiude l’anello del cammino odierno, gli ultimi passi sono sempre i più faticosi.
E mentre le tinte dorate del tardo pomeriggio abbracciano il paesaggio in ogni dove, già la nostalgia attanaglia il pellegrino stanco: poco più in là, i primi tornanti che affacciano sulla Piana di Santa Scolastica e Norcia, somigliano alle giravolte di un aquilone che plana a terra dopo aver giocato con il vento e sbirciato il mondo da dove lo sbirciano gli dei.