di Franco Raimondo Barbabella
Ho trattato della questione in un post di qualche giorno fa. La riprendo ora alla luce dello scandalo nella sanità dell’Umbria. Vedremo dopo in che senso l’una questione si lega all’altra addirittura per logica stringente pur essendo esse ben distinte. Mi riferisco alla vicenda dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, che dopo sei anni è stato definitivamente assolto dall’accusa di peculato (poco più di 12.000 euro spesi con la carta di credito del comune per pranzi e cene di rappresentanza). Per farlo dimettere, il PD della capitale, sotto la regia del suo Presidente Matteo Orfini, li fece un po’ di tutti i colori, arrivando a far dimettere i consiglieri comunali per metterlo in minoranza ed ottenere così il risultato voluto.
È ben vero che il chirurgo sindaco non era un campione di simpatia, troppo pieno di sé e forse, come insiste oggi Matteo Orfini, anche scarsamente abile nelle funzioni amministrative. Ma il punto non è questo, perché se era inadatto lo si doveva sfiduciare prima proprio perché inadatto. Il punto è che Marino fu fatto dimettere e per sei anni è stato massacrato su un tema che è di puro e semplice moralismo.
Che cos’è il moralismo? Diciamo anzitutto ciò che non è. Non è la considerazione filosofica della legge morale come superiore a qualsiasi altra attività umana; tanto meno è la convinzione che nella pratica politica debbano valere principi di etica pubblica come coerenza e responsabilità, trasparenza e rendicontazione. Si tratta di cosa molto più povera idealmente e molto più pericolosa sul piano pratico. La definizione più elegante la dà il Dizionario Garzanti: “eccessivo o arbitrario rigore nel giudicare i comportamenti o le azioni altrui”. Ma nella realtà si deve andare ben oltre l’eleganza. Nella realtà il moralismo si traduce in giudizi sommari e in condanne preventive, in pregiudizi e in emarginazioni, in invenzione di reprobi che danno fastidio e in coltivazione di vantaggi personali e di gruppo. Alla fine c’è sempre di mezzo l’idea furbesca del “levate te che me ce metto io”, con la connessa predica che vale solo per gli altri per continuare a fare come prima e peggio di prima. La traduzione pratica è il disastro istituzionale e civile.
A proposito della vicenda Marino riproduco perciò quello che ho già scritto: “Questa vicenda è destinata a diventare la metafora del moralismo che mina il tessuto civile e istituzionale della nazione. In nome di una purezza che non esiste e di un servilismo che si vorrebbe esercitato da parte di chi si impegna in politica e nell’amministrazione della cosa pubblica si sono prodotti questi bei risultati: consegna del Comune di Roma a gente non solo improvvisata ma, come dimostra una pletora di casi, esposta ai pericoli di corruzione; province massacrate in nome di una semplificazione amministrativa che è diventata, al contrario, un problema perché non c’è; i consigli regionali ridotti di un terzo in nome di un risparmio che significa scarso funzionamento e consegna delle decisioni, di fatto, nelle mani delle strutture burocratiche; il gettone di presenza dei consiglieri comunali ridotto a niente secondo l’idea che quello era il costo insopportabile della politica. Chiacchiere su chiacchiere. I problemi reali messi da parte. Spazio della politica consegnato a gente che spesso non sa nemmeno l’abc delle cose su cui prende decisioni rilevanti per tutti”. Posso aggiungere favori agli amici degli amici? Abbiamo presenti le brutte vicende giudiziarie del Comune di Roma?
Ora c’è anche la brutta vicenda dello scandalo della sanità dell’Umbria. Essa indica per suo verso a che cosa conduce un metodo di governo fondato sull’idea castale che solo pochi sanno ciò che è bene e solo questi possono decidere chi può far parte e chi no del sistema. Chi non è amico o chi è fuori dal coro, perché pensa col suo cervello e magari, udite udite, mette l’interesse generale prima di ogni interesse particolare pure legittimo, deve essere messo da parte e come minimo messo in condizione di non dare fastidio. Ecco perché fra Roma e Perugia c’è qualcosa che fa sentire il soffio di un vento comune. Ed ecco perché a conclusione sono costretto a citarmi ancora: “Penso sia giunto il momento di dire con brutale franchezza come stanno le cose e di affrontare la realtà per quello che è. Prima chiudiamo questa brutta pagina della storia nazionale e locale e prima riusciremo forse a vedere di nuovo la luce”. Aggiungo in particolare che tutti coloro che di questo sistema e di questa politica falsa e bugiarda non hanno fatto e non fanno parte devono ribellarsi. Gli altri mi auguro che rapidamente prendano atto del fallimento di un sistema e della chiusura di una lunga fase storica. Guai a pensare che non può cambiare nulla o che basta dire cambiamento perché tutto vada a posto. No, dobbiamo cambiare per conquistarci una realtà che rispetti i diritti e i bisogni delle persone. Le persone prima di tutto. Dunque è l’ora del cambiamento anche per le comunità che quel sistema di potere hanno accettato supinamente, qualsiasi ne fosse il motivo o qualsiasi ne fosse la condizione, pagandone perciò salate conseguenze.