Non esistono venti favorevoli se non si sa dove andare. Seneca
La gioielleria orologeria Barbini era accanto al Caffè Montanucci già al tempo dell’ultima guerra quando entrarono due SS con un gran fragore di stivali a pretendere orologi.
Vi trovarono il vecchio Barbini che sbracò giù ogni cosa senza battere ciglio lui, che quando raccontava l’accaduto, diceva: “Fortuna che non c’era ‘l mi’ figlio che nervoso com’è, mica se sa che poteva succede!”.
Il figlio irascibile del signor Barbini contro due SS: uno scontro epocale dagli esiti incerti.
Poi la gioielleria fu per molti anni dei Petrella: negozio storico, come il precedente d’altronde, della borghesia orvietana, discreto, silenzioso, emblematico.
Ora non c’è più. Gli orologi d’epoca in vetrina segnavano il tempo di una consuetudine come quella di guardare l’ora lassù, verso la Torre del Moro.
Ha chiuso Menegali e con lui i profumi della pelle, dei tavoloni del pavimento intrisi nel negozio dai tempi del vecchio Menegali, il babbo del longevo Checchino, cento e passa, che dentro quei locali costruiva le selle per cavalli nell’Orvieto dei pellai, dei calzolai, dei fabbri, dei falegnami, dei ceramisti.
È rimasto in mutande, si fa per dire, dopo un secolo, il negozio degli Svizzeri contro la cui vetrina il piccolo Nello Riscaldati, anni ‘30, prima della guerra, correva a schiacciare il naso la Domenica, nel giorno di chiusura però, quando le caramelle e i dolci con lo zucchero, gli diceva la mamma, si possono soltanto guardare. Era forte e caldo il senso di comunità, di approdo comune che regalava il negozio degli Svizzeri. L’odore della tostatura del Caffè sparso per il Centro era una campana laica che chiamava a raccolta la città.
Un mio amico, quando a Orvieto ancora si ruzzava, entrò: “Non è che potete tostà ‘l decaffeinato Hag ch’a me l’odore de questo bòno me fa pija ‘n nervoso!”.
Dopo un secolo anche la libreria, una tappa vivificatrice dell’intelletto, un’oasi silenziosa se ne è andata portando dietro di sé un carico di casse piene non di libri, ma dei tufi di un pezzo di città.
Quando c’era Enzino Fusari ci si infilava lì, dentro quel budello a parlare di politica: “Dai, annamo su da Enzo a fa’ ‘l governo”.
I dibattiti, le teorie, i livori politici: quanta Città, quanta umanità orvietana in quella libreria che
in epoca di guerra fredda segnava una zona franca tra l’Est e l’Ovest. Lì si incontravano le due fazioni e, nel rispetto del luogo denso di cultura, i discorsi di provincia viaggiavano dentro il limite di velocità escluso lo sport se Don Italo, alleronese sanguigno e tifoso del Torino poté mollare uno schiaffone improvviso quanto tremendo al povero Fusari, ultrà juventino.
Scendi giù verso la Caserma Piave e non incontri più quella costruzione solitaria e solenne, bella della sua architettura razionalista seppur disabitata, ma vedi una costruzione vecchia, malata, fatiscente dove, entrando, sei preso dall’idea di una città desolata, colpita da chissà quale epidemia.
Se ancora sali, invece, da Piazza Cahen per via Postierla, incontri il Distretto Sanitario, una costruzione ormai logora, a mala pena agibile per un centro importante, strategico per la salute del cittadino e salendo ancora su, arrivi a Piazza del Duomo, dove c’è il vecchio ospedale, splendido luogo abbandonato e cadente, un tempo volano di economia da quando gli abitanti del contado in visita frequentavano i negozi di Via del Duomo per fare acquisti e Dante, della profumeria Duranti, alla richiesta della saponetta per il degente chiedeva con tono altamente professionale: “Medicina o chirurgia?”.
È un’epoca che sta finendo. È un processo lungo cominciato nel dopoguerra durante il quale la Porta di Orvieto era ancora Porta Maggiore e nella città era attivo il centro commerciale al servizio di tutto il suburbio che è terminato e sta giungendo al capolinea.
“Io li vedevo da qui nella bottega quando sette, otto uomini”, raccontava Gino che aveva/ha un negozio storico di abbigliamento: “venivano su e fieri imboccavano il Corso da Piazza della Repubblica e già sapevo che avrebbero comprato sette, otto abiti neri, tutti uguali per il matrimonio del parente. E nel periodo dei matrimoni arrivavano un paio, anche tre gruppi al giorno”.
La città da tempo si è distesa buona buona e sta aspettando di morire con un sentimento etrusco di ineluttabilità. Non è rimasto più nulla che possa favorire la vecchia economia. A causa di una disposizione imbecille è partito anche il Tribunale prosciugandone altra ancora di ricchezza, impoverendo ancor di più la città.
Allora, “cosa possiamo fare poveri noi con i nostri polsi di burro?” domandava il maestro Zanchi quando tentava di chiudere la saracinesca del suo negozio di cappellaio accanto al caffè Barberani.
Possiamo inventare un’altra città. Ecco cosa dobbiamo fare. Non c’è scampo. Orvieto verrà amministrata come è giusto e dovuto ma, prima di ogni altra cosa, dovrà essere “progettata” perché il delicato, complesso processo di trasformazione non ci travolga, ma venga governato.
Questa rubrica di MARCHESING, un marketing del tutto personale, cercherà, per quanto possibile, di indicare in più puntate domenicali come e cosa fare per aiutare tale processo.
Arrivederci a Domenica prossima.