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Home Cronaca

Umiliata, picchiata, derisa per anni. L’amore per i figli le dà la forza di denunciare. E’ la storia di Patrizia, donna coraggio che dall’inferno è riuscita ad uscire

Redazione by Redazione
10 Marzo 2019
in Cronaca, Secondarie, Archivio notizie
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“Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la liberta che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi signori, davanti a una Donna!” (W. Shakespeare)

L’innamoramento – La chiameremo Patrizia. Non è il suo vero nome. Abbiamo voluto tutelare la sua identità e, soprattutto, quella dei suoi figli. Umbra, ancora giovane nell’aspetto e una vita intera davanti, nonostante di vite in realtà ne abbia vissute parecchie, perché Patrizia è morta e risorta molte volte. Una forza d’animo sorprendente con la quale ha affrontato ostacoli e difficoltà che molte donne nella sua situazione non hanno avuto. Dice che preferisce ricevere domande, che preferisce raccontare la sua storia nella più classica delle interviste: in realtà non ce ne sarà bisogno perché Patrizia è un fiume in piena, uno tsunami di emozioni che toglie il fiato, ad un ritmo incalzante che prende la testa e lascia storditi: ci sono storie che è difficile anche ascoltare e quella di Patrizia è una di queste.
“Ci siamo conosciuti che eravamo giovani, coetanei, ed anche se abitavamo in luoghi diversi non proprio vicini, questo non ha mai rappresentato un ostacolo. Lui veniva spesso a trovarmi, appena gli era possibile. Abbiamo deciso di andare a convivere, io mi sono trasferita da lui: certo, a posteriori, capisco che non aver avuto il contatto quotidiano all’inizio, non mi ha consentito di conoscerlo a fondo e meglio”.
Tutte le storie cominciano allo stesso modo, con un amore che sembra giusto, sincero, limpido, appassionato. E per tutte le storie come quella di Patrizia, non esiste un momento preciso, una causa apparente che scatena l’indicibile. “Non saprei dire quando è cominciato tutto, quando lui è cambiato; certo, non è mai stato un campione di socializzazione, è stato sempre un po’ introverso e quando all’inizio si stancava delle nostre amicizie e delle frequentazioni, pensavo fosse normale per un carattere come il suo, non gli ho dato molto peso. Però notavo che il suo atteggiamento era cambiato, sembrava volesse isolarmi dal resto del mondo, fare terra bruciata intorno ma fin lì non c’erano mai stati episodi particolari”.

Litigi, umiliazione, la passione per il gioco – Poi in un crescendo di tensioni, ogni giorno il limite veniva spostato sempre oltre: il litigio all’ordine del giorno e per futili motivi, diviene parola pesante, offesa, umiliazione. In un vortice incontrollabile, quasi rispondendo a un copione simile a mille altri di cui la cronaca si occupa quasi quotidianamente, le parole si trasformano in schiaffi, pugni, mani strette al collo, minacce. “Sono attimi che non passano mai e che ti si scolpiscono per sempre nell’anima: il terrore si impadronisce della tua vita, diviene la spada di Damocle sulla quotidianità e terminare la giornata avendo preso solo uno schiaffo, può farti dire a te stessa: beh, oggi è andata bene, via…”.
La passione del gioco e le difficoltà relazionali che gli creano problemi anche nella stabilità del posto di lavoro, acuiscono ancor più la situazione. “Mi incolpava anche di questo, che non riusciva a concentrarsi sul lavoro, sul telefono, mentre giocava al videopoker; la colpa era sempre e comunque mia, divenivo la sua valvola di sfogo e quando capitava, non c’era bisogno di chissà cosa, bastava la radio con il volume un po’ più alto per scatenare la sua violenza”.
La descrizione di alcuni di questi episodi è scioccante ma Patrizia rimane fredda e ne contorna puntigliosamente ogni attimo, ogni gesto: “La volta che preso dalla rabbia staccò una porta lanciandola dal balcone o quando con il mattarello in mano, gridando come un ossesso, distrusse tutta la cucina, piatti, bicchieri, vetrine, tavolo, lampadario…Qualcuno si è domandato per quale motivo io abbia subito per molto tempo prima di avere il coraggio di denunciare, perché non lo abbia allontanato subito: forse per paura, all’inizio probabilmente anche per sentimento.
Avevo la netta sensazione che avendolo vicino potessi gestire meglio la situazione, tenere tutto sotto controllo. Forse pensavo ancora di potercela fare, di certo i giudizi di chi sta fuori, di chi non vive da dentro queste situazioni, non sono corretti. Perché prima di denunciare definitivamente, pensi che ci sia ancora una possibilità, che rivolgendosi a qualcuno se ne possa uscire, magari con una terapia di coppia o con un supporto psicologico. Ci ho provato ma non è servito, almeno nel mio caso”.

La paura e il coraggio – Se l’inizio di tutto non può essere datato e sembra non aver avuto una causa scatenante, l’attimo in cui Patrizia comprende che oltre non si può andare e che anche il limite più estremo è stato oltrepassato, ha un’immagine precisa e delle parole che rimane difficile anche trascrivere: una sera, l’ennesima lite, le mani al collo, il suo cellulare distrutto sotto i piedi e lui che rivolto al figlio più grande gli dice che lo ammazzerà, lo ammazzerà per primo per far soffrire lei, Patrizia! A questo punto la donna comprende che non può più tergiversare, afferra al volo la crudeltà inusitata di quelle parole e diviene consapevole che ora non si tratta più di difendere la propria incolumità ma quella dei figli.
La donna che denuncia non è alla fine del calvario ma solo all’ennesima stazione: “Al di là della rabbia di lui e delle sue minacce di morte che diventavano sempre più pressanti, occorre affrontare un sistema che non sempre è pienamente consapevole della drammaticità degli eventi che una donna può subire”. E se all’atto della denuncia, una violenza domestica può essere equiparata da un componente le forze dell’ordine a una semplice lite familiare (“Signora mia, anche io ieri sera in un attimo di rabbia a casa ho sfasciato un telefono”), la prima domanda che le viene rivolta da una psicologa è scioccante: “Signora, lei cosa fa di preciso per meritarsi le botte del suo compagno?”. “L’Italia è un paese con una cultura patriarcale, a tutti i livelli”, è l’amara constatazione di Patrizia.

La condanna e la speranza – Condannato in primo grado, con il divieto assoluto di avvicinarsi a meno di cinquecento metri dalla sua famiglia e l’obbligo di firma dove risiede, l’uomo continua a tempestare di telefonate la sua ex compagna, quasi per irriderla e per mostrare la sua prepotenza. “Ha l’obbligo di firma una volta al giorno, di sera, di certo non è una cosa tranquillizzante perché anche se non risiede in zona, lui in poche ore potrebbe arrivare qui e ripartire senza nessun problema. L’aiuto concreto c’è stato solo da parte del mio legale, di alcuni familiari e da componenti le forze dell’ordine che hanno compreso a fondo la situazione e si sono fatti carico di responsabilità che a volte non erano neanche di loro competenza”.
Dopo un’ora e mezza di colloquio, nel quale Patrizia ha raccontato tutto con tono di voce sicuro, descrivendo episodi drammatici con incredibile lucidità, le sue parole iniziano a spezzarsi sotto il peso del dolore, il tono si fa via via più commosso, fin quando scoppia in un pianto liberatorio: “Voglio raccontare la mia storia perché spero che un’altra donna, attraverso le mie parole, possa trovare il coraggio di denunciare, di uscire allo scoperto. E poi lo debbo ai miei figli, è per loro che ho fatto tutto questo e voglio che un giorno sappiano quel che è accaduto e del coraggio che ha avuto la loro madre. Nessuna pena, neanche se gli dessero l’ergastolo, potrà mai lenire le mie ferite, il dolore che tutta questa storia ha provocato a me e ai miei figli”.

(Gabriele Marcheggiani)

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