di Franco Raimondo Barbabella
Molte delle critiche l’Europa per come è oggi se le merita: troppo potere ai burocrati e poco al Parlamento, squilibrio tra politica monetaria (affidata all’Unione) e politica economica e fiscale (nelle mani dei governi nazionali), debolezza degli organismi intergovernativi per le rivalità tra gli stati membri, inconsistenza della politica estera, ecc. Evidenti poi in tempi più recenti le contraddizioni e le tensioni indotte da una parte dall’avanzare dei movimenti sovranisti e dall’affermazione di partiti e governi illiberali e dall’altra dall’incapacità di farsi carico come Unione della gestione delle politiche migratorie.
Eppure per quasi un settantennio erano prevalsi gli aspetti positivi. Dopo che menti lungimiranti e politici di valore dall’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso avevano saputo inventare le Comunità europee (CEE, Euratom, CECA), l’Europa ha garantito un lungo periodo di pace e prosperità per le popolazioni degli stati aderenti (nei cinquant’anni precedenti 2 guerre mondiali avevano provocato 60 milioni di morti, 76 milioni di feriti e disastri per le popolazioni civili). Ha avuto una fortissima capacità di attrazione in ragione dei suoi parametri di civiltà: dal nucleo dei sei stati fondatori si è arrivati ai 28 attuali (27 se avrà esito la Brexit).
Ha rafforzato la base di legittimazione democratica delle istituzioni: dall’Assemblea parlamentare europea del 1958 con nomina da parte dei parlamenti nazionali si è passati al Parlamento europeo del 1979 con elezione diretta proporzionale. Ha ampliato notevolmente le materie di competenza comune: da quelle degli anni cinquanta del secolo scorso (carbone, acciaio, energia atomica e mercato) a quelle assunte dall’Unione Europea degli anni 1993-2009 in campi come l’economia, la giustizia, gli affari interni, la politica estera e la sicurezza. Infine, alcuni dati sulle trasformazioni sociali: dal 1957 al 2007 i poveri sono scesi dal 41% al 14% della popolazione; la ricchezza delle famiglie è cresciuta di ben quattro volte; si è registrata nello stesso periodo una riduzione delle disuguaglianze che non ha avuto eguali nella storia.
Per tutto questo e per molto altro (la libera circolazione, i progetti europei, la mobilità, gli scambi culturali e scolastici, ecc.) la percezione dell’importanza di stare in Europa e di essere cittadini europei con i decenni è notevolmente cresciuta. Ma negli ultimi dieci anni, passo dopo passo, le cose si sono messe in modo diverso e ora si rischia di andare al rinnovo del Parlamento con la sensazione che potrebbe essere possibile non solo uno stop nel processo di rafforzamento del sistema comunitario ma un pesante ritorno indietro. D’altronde le difficoltà sono evidenti. Lo dimostrano, oltre a ciò che ho detto all’inizio, alcuni dati significativi ricordati su “Avvenire” di non molto tempo fa da Roberto Sommella: “l’80% della nuova ricchezza va al 15% della popolazione più agiata; crescono le asimmetrie, soprattutto per i giovani; in molti Stati membri i salari reali sono fermi dal 2008 (ora, non a caso, si sbloccano in Germania: quelli pubblici cresceranno dell’8%). Per la prima volta da mezzo secolo, le nuove generazioni sono allo sbando: 23 milioni di europei tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano. Ben 118 milioni, il 24% della nostra popolazione, sono a rischio povertà o esclusione sociale.”
Ma nel mondo di oggi, in cui contano sempre più le politiche di area e i colossi capaci di geopolitica strategica (USA, Russia, Cina e altri che man mano si possono affacciare), la nostra speranza, dovunque e comunque collocati, è proprio quest’Europa, che pur malconcia mantiene tutte le possibilità di riformarsi, risollevarsi e porsi come protagonista sia del necessario riequilibrio mondiale sia delle garanzie di pace, sicurezza e sviluppo civile, dei popoli che la costituiscono. Perché lo possiamo capire dai processi in atto.
1. Le manovre americane e russe tendenti a disgregare l’Unione ci dicono quanto sia importante la sua esistenza e quanto potrebbe incidere negli equilibri mondiali il suo rafforzamento.
2. Le difficoltà della Brexit (causate sia dall’insipienza della classe dirigente inglese sia, questa volta, dalla fermezza lucida dei dirigenti europei) ci dicono quanto poco giovino ai popoli la demagogia populista e le politiche isolazioniste.
3. Tutte le questioni essenziali per costruire il futuro (ambiente, migrazioni, sicurezza, ricerca e sviluppo compatibile) passano attraverso politiche sovranazionali. Si potrebbe continuare.
L’Europa dunque come speranza. Una speranza fondata naturalmente su analisi e scelte razionali, e però anche su preferenze di cuore, che devono essere stimolate da proposte politiche lungimiranti e coinvolgenti. In sostanza, un progetto di riforma dell’Unione che, ispirandosi alle sue logiche fondanti, ne sappia cogliere la forza innovativa rispetto alle esigenze di oggi.
E il primo punto non può che essere il rafforzamento della sua natura democratica e di faro della civiltà mondiale con la contestuale limitazione degli egoismi, delle disparità e delle ingiustizie. Si può fare rilanciando la prospettiva federalista. Sapendo però che non può essere uno slogan, perché le paure alimentate dalle chiusure sovraniste non si combattono semplicemente spostando lo sguardo verso un futuro indeterminato ma solo dicendo la verità e prendendo posizione chiara sui problemi. Che sono sotto gli occhi di tutti (immigrazione, fisco, investimenti, occupazione, sicurezza, diritti delle persone) e richiedono mentalità e comportamenti da classi dirigenti e non da guardiani di condominio.