Commento di Dante Freddi- In questi giorni la lotta dei pastori sardi e siciliani, ora anche umbri e di altre regioni, tiene le prima pagine dei giornali e ci ha costretti a riflettere sulla difficoltà che questi piccoli imprenditori vivono per tenere in piedi le loro aziende. La grande distribuzione comprime i prezzi e lo sconto e la promozione e la concorrenza la fa pagare ai produttori e questi ai pastori, i primi della filiera, gli ultimi nel processo di costruzione del prezzo. Si sta annunciando un Sessantotto degli agricoltori, annota Carlo Petrini in questo bell’articolo pubblicato su La Stampa. Dell’intervento di Petrini isolo una considerazione, tanto per stare sul pezzo: « Se da una parte abbiamo l’impressione di pagare poco il cibo al supermercato mentre dall’altra paghiamo i sussidi necessari alla sopravvivenza di comparti schiacciati da quella stessa grande distribuzione, la contraddizione c’è ed è pesante» .
È proprio vero. Il nostro interesse di consumatori vuole il prezzo più basso, ma non teniamo conto che il risparmio lo paghiamo attraverso la contribuzione generale e che i sussidi, come i 50 miliardi per acquistare le eccedenze di pecorino sardo, sono a nostro carico. Anche di chi è allergico ai latticini. È una perversione e basterebbe una maggiore attenzione agli acquisti e accettare che i prezzi di alcuni prodotti agroalimentari siano più cari di qualche centesimo per uscire da questo equivoco, in cui comunque paghiamo noi e i più deboli della filiera. Certo, a dirla così parrebbe facile, ma non si realizzerà nulla senza una politica agricola di visione in cui i costi e i benefici, come va di moda, non pongano di fronte tutti gli attori nei loro diversi ruoli, tra cui quello di guardiani dell’ambiente e tutori del paesaggio. Tutto questo qualcosa costa e va pagato dai consumatori e non dalla fiscalità generale.
Posta Condotta Slow Food Orvieto ha condiviso un link. Carlo Petrini
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Se scoppia il Sessantotto dei contadini
Quello a cui stiamo assistendo, potrebbe essere l’inizio di un…
Buttare via il frutto del proprio lavoro è il segno di una disperazione e di una esasperazione che non sono più contenibili all’interno del normale dibattito pubblico. Molto spesso, purtroppo, è l’unico modo che i contadini hanno per farsi ascoltare. Lo abbiamo visto in questi giorni con i pastori sardi, ma rischiamo di vederlo ancora e, forse, sempre più spesso. Alcune lotte e istanze si sono già unite approfittando dell’attenzione suscitata dal versamento del latte sardo e altre, presumibilmente, si uniranno ancora.
Presidio del Fiore Sardo © Alberto Peroli
Dagli olivicoltori strozzati da un mercato asfittico e dalla xylella ai cerealicoltori siciliani che si vedono il grano pagato al prezzo di trent’anni fa, solo per citare i casi di questi giorni.
Quello che questi episodi ci raccontano è un sistema alimentare che sacrifica il benessere di chi produce trasformando la materia prima in commodity e comprimendo sempre di più i margini di guadagno per il settore primario.
Quello a cui stiamo assistendo, se non si cambia rotta, potrebbe essere l’inizio di un “Sessantotto dei contadini”, la cui voce non deve più essere ignorata. Contadini che oggi chiedono di emanciparsi da un modello di mercato in cui a guadagnare sono solo i grandi agglomerati industriali che trasformano la materia prima, la distribuiscono o fanno le due cose insieme.
E se tanto più veemente è la protesta, tanto prima si ricorre a misure tampone, bisogna però sottolineare che sussidi o acquisti di emergenza non possono rappresentare la soluzione, anche perché si tratta di misure che alla lunga non fanno altro che perpetrare la situazione iniziale. Non solo, ma i sussidi sono fatti di soldi pubblici, cioè di denaro dei cittadini. È chiaro allora che se da una parte abbiamo l’impressione di pagare poco il cibo al supermercato mentre dall’altra paghiamo i sussidi necessari alla sopravvivenza di comparti schiacciati da quella stessa grande distribuzione, la contraddizione c’è ed è pesante.
Eppure le soluzioni per un’agricoltura a misura d’uomo ci sono, e molto spesso sono praticate da tantissimi già oggi, in ogni regione d’Italia. La prima chiave è la biodiversità, la valorizzazione delle differenze territoriali e tradizionali.
Antiche varietà di grano duro di Lansarin e Gaffaya © Oliver Migliore
In ogni angolo del nostro Paese troviamo specie autoctone, razze ancestrali, varietà uniche che si sono adattate al territorio e che danno vita a eccellenze irripetibili che possono generare giusto reddito, se conosciute e promosse. Poi c’è la multifunzionalità. Non è più pensabile che un’azienda agricola si focalizzi esclusivamente su un prodotto, perché in questo modo si rischia di essere in scacco delle dinamiche perverse del mercato, a dipendere da speculazioni su cui non si ha nessun controllo.
L’azienda multifunzionale è il futuro.
Capace di coltivare prodotti differenti, di usare le deiezioni dei propri animali come fertilizzante per i campi in cui si coltiva il fieno o il grano, di essere al contempo fattoria didattica la domenica e punto di vendita diretta in settimana, magari anche di offrire ospitalità agrituristica. Infine, altro punto centrale è l’integrazione di fasi diverse della filiera. Chi riesce a trasformare in casa il proprio prodotto ha maggiori margini di guadagno oltre che maggiore soddisfazione e riconoscibilità, così come chi riesce a praticare un’agricoltura circolare.
Questo è lo scenario a cui tendere per dare un futuro promettente ai giovani in agricoltura. E le istituzioni, la politica, giocano un ruolo per niente marginale. Un esempio recente è la legge regionale n.1 del 2019 (ne abbiamo parlato con l’assessore Ferrero qui), approvata a gennaio di quest’anno dalla regione Piemonte. Una legge che sostiene questo modello di agricoltura e prova a offrire strumenti utili a perseguirla. Una legge ben fatta, che certamente si può replicare altrove.
Da La Stampa del 20 febbraio 2019