di Franco Raimondo Barbabella
Dobbiamo ammetterlo senza alcuna reticenza in nome del principio di realtà e dell’istinto primordiale di verità: il Paese di Galileo, il padre della rivoluzione scientifica, ha se non in odio certamente in sospetto l’analisi razionale, il calcolo, il monitoraggio delle attività, cioè procedure controllate di progettualità, attuazione e verifica. A meno che l’analisi non sia utile a supportare una tesi precostituita, ciò che però la rende lontana dalla razionalità scientifica. Inutile fare esempi, tanti ce ne sono in continua evidenza.
Per contro pare ci sia un amore sviscerato per la magia, non quella degna di attenzione che precedette e in un certo senso preparò la nascita della scienza moderna, ma quella odierna, televisiva e social, che si traduce quasi sempre in qualche parola poco meditata. La parola che va di moda negli ultimi tempi è autonomia, voce molto impegnativa e carica di conseguenze, che per questo però prefigura guai certi quando si trasforma appunto in parola magica, quella che di per sé risolverebbe tutti i problemi.
Mi riferisco a ciò che accade sia nella dimensione nazionale che in quella locale, essendo evidentemente identica la deformazione. Parto dal livello nazionale e mi riferisco alla discussione sull’autonomia chiesta dalle regioni Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. In quelle regioni si è partiti con l’idea che passando alla cosiddetta autonomia differenziata o rafforzata (prevista dalla discutibilissima, qualcuno disse fin d’allora disastrosa, riforma costituzionale del 2001) si possano gestire meglio le risorse provenienti dal territorio senza i condizionamenti e gli impacci della gestione statale.
Non si è tenuto conto però né della storia, né dell’oggi, né del domani, di quelle regioni nel contesto di un’Italia che insieme alle differenze deve garantire sviluppo omogeneo, efficienza ed equità per tutti. Al di là di ogni orpello formale, è un andare avanti ciascuno per la propria strada senza tener conto degli altri, ma soprattutto è una visione miope rispetto alle riforme complessive necessarie per rendere competitivo il Paese intero rispetto alle sfide europee e mondiali. Ovvia la reazione delle regioni del sud, e degna di rilievo la proposta del presidente campano De Luca di riprendere l’idea della macroregione del sud secondo il modello lanciato a suo tempo da Gianfranco Miglio. Ovvia anche la difficoltà delle regioni centrali, che in questi anni si sono accontentate della propria autocontemplazione come se il mondo dovesse fermarsi ad ammirare i risultati raggiunti. In particolare, come potrà una piccola regione come l’Umbria reggere l’impatto di un’autonomia intesa come la intendono le regioni del nord? Bah!
Autonomia vuol dire ben altra cosa che non la gestione in un posto di 25 materie in più, in un altro di 20, e in un altro ancora di 15. Ci vuole una riforma complessiva dello Stato: riforma e riduzione del numero delle regioni, trasformazione delle province in enti elettivi con compiti di coordinamento delle politiche di area vasta, riordino delle funzioni amministrative dei comuni e contemporaneo sfoltimento della pletora di organismi di gestione per materie differenziate. Vogliamo parlare in questa prospettiva anche della modernizzazione delle infrastrutture e dei servizi a scala territoriale? L’autonomia che diventa visione ristretta per tutela di interessi ristretti si trasforma inevitabilmente nel suo contrario.
È ciò che può accadere anche a livello locale quando anche qui autonomia assume inopinatamente caratteristiche non di scelta razionale di vero cambiamento, ma di parola dagli effetti magici. Ci si accorge all’improvviso che si sta ai margini, che non si conta niente là dove si prendono le decisioni che contano e che tali decisioni spesso favoriscono altri a nostro danno. Non ci si chiede naturalmente se per caso un simile risultato non sia il frutto non tanto di una cattiveria di chi ci sovrasta quanto piuttosto di una nostra debolezza o addirittura di una nostra acquiescenza a logiche di potere che hanno altri punti di interesse. Non si ammettono errori o sottovalutazioni. Non si fa autocritica. Non si dice di cambiare strada, con le inevitabili rotture dei legami di protezione e le relative parimenti inevitabili conseguenze. No, si scopre semplicemente il valore magico dell’autonomia.
Sia chiaro, non c’è nessuno che più di me, che dell’affermazione di un sano concetto di autonomia ho fatto una pratica di vita intellettuale e politica pagandone tutti i prezzi, può provare piacere quando legge analisi e dichiarazioni di fede nel potere taumaturgico dell’autonomia da parte di soggetti che sia nel passato che nel presente hanno agito in conformità di condizionamenti e di interessi esterni. Dico dunque evviva la conversione! Mi prendo però la libertà di ricordare che, come ho già detto, autonomia non è parola magica, ma parola parecchio impegnativa, per cui per essere credibili non basta pronunciarla, ci vogliono al contrario sia attendibilità corroborata da esempi sia comportamenti che nel presente facciano capire ciò che si farà nel futuro.
Oggi le realtà come Orvieto, in una regione come l’Umbria, sono ad un bivio: o sono capaci di svincolarsi da condizionamenti asfissianti, riscoprono le potenzialità di sviluppo per metterle a sistema, elaborano una strategia di ampio respiro e la perseguono con determinazione, o di fatto accettano un destino di marginalità e di degrado. Bisogna scuotersi dal torpore, rifiutare la passiva accettazione di strategie esterne, e svolgere un ruolo territoriale da protagonisti del proprio destino all’incrocio con altre regioni. Daranno così anche un contributo alla trasformazione dell’Umbria da terra frammentata tenuta insieme da un verticismo fuori tempo in terra vocata a costruire interrelazioni coordinate e produttive. I tempi lo consentono. L’occasione c’è.
Quale occasione migliore, infatti, del rinnovo dell’amministrazione civica per gettare le premesse di un percorso di questo tipo? A due condizioni essenziali però: 1. che si facciano programmi e liste che non rispondono a disegni che rendono oggettivamente subordinati gli interessi della comunità; 2. che si eleggano persone che danno garanzia, per orientamento consolidato e competenza, che autonomia non è parola magica ma pratica possibile.
Ciò che si vede al momento non sembra andare in questa auspicata direzione. Pare piuttosto di assistere ancor più che nel passato a tentativi di imporre alla città strategie esterne, di partiti e personaggi. Ancora una volta la comunità ridotta a pedina, addirittura in qualche dichiarazione il brivido dell’occupazione manu militari per la scalata al potere regionale. Non sono ingenuo, non vivo nel mondo dei sogni, ma quando è troppo è troppo. Mi auguro che si trovi la lucidità e la forza morale e politica di reagire con la sapienza necessaria.