di Franco Raimondo Barbabella
Nell’agosto del 2014, a pochi mesi dall’insediamento del Governo Renzi, in un articolo intitolato “Chi ci rimette con il primato della politica”, Luca Ricolfi scriveva quanto segue: “La realtà, temo, è che demagogia e populismo sono ormai saldamente insediati nel Dna della nostra classe politica. Renzi e i suoi, almeno per ora, non sembrano fare eccezione. Perché l’essenza del populismo, il suo ingrediente fondamentale, non è l’appello al popolo (che pure non manca: «ho preso il 40.8% dei voti»), ma è il semplicismo, l’incapacità di riconoscere e accettare la complessità dei problemi di una società moderna, tanto più se in crisi da vent’anni. E’ di qui che nasce il senso di sufficienza verso professionisti ed esperti. E’ qui che trova alimento il sentimento di onnipotenza dei governanti”.
Egli poneva così all’attenzione due fenomeni congiunti di lungo periodo: la relazione tra demagogia e populismo da una parte e primato della politica dall’altra, e il fatto che quest’ultimo, oltre ad essere questione antica e trasversale, ad un certo punto della storia, è stato interpretato come esercizio del comando, o meglio, appunto come “onnipotenza dei governanti”.
Di qui anche i fenomeni del leaderismo individualista (“levate te che me ce metto io”) e il conseguente “minore rispetto, per non dire il maggiore disprezzo, per qualità come l’esperienza, la competenza, la preparazione tecnica e culturale”. Non potevano non seguire anche la fedeltà e l’appartenenza come criteri di selezione della classe dirigente, i notissimi cerchi e gigli magici, rispettivamente di Berlusconi e di Renzi.
Nel 2007 Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo avevano pubblicato il fortunatissimo pamphet “La casta”, parte di una vasta operazione di potentati economici e civili in apparenza finalizzata a cambiare la politica in direzione di sostanziose riforme fondate su competenza, onestà e dedizione al bene comune, e nei fatti tradottasi però, volenti o no, solo nello smantellamento dei pur colpevoli partiti e nell’affanno dei corpi intermedi. Appunto, il ritorno del primato della politica, intesa ora come esercizio arrogante del potere.
Dico ora, perché in tutte le fasi precedenti non era stata questa la sua caratteristica prevalente. Non lo era stata né nella fase dei governi centristi né in quella dei governi di centrosinistra, e nemmeno all’epoca del CAF e di Craxi, pure definito spregiativamente decisionista. In quelle stagioni la politica aveva peraltro conosciuto, insieme alle cadute clientelari e corruttive, anche punte alte sia sulle questioni interne che in quelle internazionali.
In realtà tutto era cominciato con Antonio Di Pietro, anticasta apparente e però vero iniziatore del populismo e del moralismo giustizialista, che, sfruttando una sana ripulsa popolare per le degenerazioni del sistema politico-istituzionale, avrebbe di fatto contribuito pesantemente a “buttar via il bambino con l’acqua sporca”. L’acqua sporca in verità sarebbe rimasta, anzi da lago che era sarebbe diventata un mare, diffondendosi fino ad investire tutti gli ambiti della vita pubblica e fino a farci scalare le classifiche mondiali. Per di più il dipietrismo avrebbe rinnovato il fascino distruttivo di alcune potenti tossine storiche: il familismo, l’obbedienza al capo, la disinvoltura nella gestione del finanziamento pubblico, la delegittimazione dell’avversario, il trasformismo (“brutto nome di più brutta cosa”, avrebbe detto Salvemini).
Il paradosso è che Di Pietro si definiva liberale, così come il suo avversario preferito (con cui peraltro a quanto pare sembra dialogasse volentieri sottobanco) Silvio Berlusconi, con la cui presenza da primattore si vide allora quasi tutto, tranne, non per caso, la promessa rivoluzione liberale. E così, dopo la crisi finanziaria del 2007/8 e dopo quella politica del 2011, avemmo Renzi e il renzismo, stagione breve ma così piena di “cortomiranza” da preparare una serie di sconfitte a raffica e infine l’avvento del governo gialloverde.
Con questo, eccoci dunque arrivati alla congiunzione con il processo storico messo a fuoco da Ricolfi all’epoca del governo Renzi, la congiunzione di demagogia e populismo con il primato della politica, un fenomeno più lungo e certamente più denso di conseguenze di quanto normalmente non si pensi. Come dire che le posizioni e i comportamenti di Salvini e di Di Maio e dei rispettivi partiti, e di conseguenza anche del governo attuale, hanno “padri nobili” e un solido retroterra.
La storia segue vie traverse, ma le logiche fondamentali si possono, se non vedere subito, almeno intravedere. Quelle di Lega e 5Stelle hanno caratteri certo distinti e particolari, ma per l’essenziale somigliano a logiche di potere ampiamente sperimentate sia nel recente che nel lontano passato. Non c’è bisogno di risalire a Machiavelli per darne una spiegazione attendibile (comunque, detto di striscio, sarebbe parecchio utile rileggersi i “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” al fine di capire quanto sia grande la differenza tra conquista e mantenimento del potere), basta appunto volgere lo sguardo al recente passato della nostra storia repubblicana. Non a caso, passata l’ebbrezza della conquista della “stanza dei bottoni”, si ripropongono fenomeni altrimenti vituperati che vanno dai litigi ai vertici di maggioranza, dai compromessi spregiudicati alla spartizione delle poltrone. E come sempre è accaduto, la cura della fidelizzazione, che avviene in fretta, come in fretta procede l’allineamento degli apparati di potere e di chi pensa di guadagnarci qualcosa.
Ma ora in più c’è la grande forza del sistema di comunicazione, che di fatto trasforma il primato della politica in lotta senza quartiere per il consenso, ciò che inevitabilmente dà ottime carte da gioco a demagogia e populismo organicamente alleati. Perciò “mi meraviglio che tu ti meravigli”, avrebbe detto il mio amico se ancora fosse qui a dialogare tra noi, a proposito della lotta senza esclusione di colpi tra i partiti di governo e tra i loro capi, che ne inventano almeno una al giorno pur di occupare fino a due terzi degli spazi televisivi, dei social e di quanto altro risulta disponibile.
Così in nome del popolo (dimenticando che il popolo è l’intero e chiunque eletto con qualunque percentuale è comunque solo una parte) si prendono decisioni che in realtà hanno a che fare con l’interesse dell’una o dell’altra parte o di entrambe, ma non del popolo inteso come il titolare esclusivo del potere della nazione. Tali sono le decisioni di bilancio, per contenuti e modalità, e in particolare i due provvedimenti bandiera, quota cento e reddito di cittadinanza, utili si ai due contraenti del contratto per soddisfare le rispettive promesse elettorali, ma certo molto meno per la soluzione dei problemi di fondo sia economici che sociali. Stessa logica ha la recente approvazione in Senato del ddl sulla riduzione del numero dei parlamentari e stessa natura la diatriba sulla Tav. Soprattutto, stessi criteri in politica estera, in cui si stanno raggiungendo punte di vera e pericolosa irresponsabilità.
Personalmente avevo ritenuto molto grave l’incertezza di posizione sulla crisi venezuelana, di fatto un appoggio al regime chavista di Maduro, ma la spinta verso la crisi diplomatica con la Francia non ha possibilità di paragone con qualsiasi altro evento problematico nelle relazioni internazionali almeno dal secondo dopoguerra ad oggi. Sia ben chiaro, la Francia ha responsabilità di lungo e di breve periodo nei problemi di relazione con l’Italia, ma questi si affrontano sul serio solo se si è autorevoli, se si rispettano le regole dei rapporti tra gli Stati, se si agisce nelle sedi deputate, e comunque se si sa che cosa si vuole e dove si vuole andare a parare. Si può capire la polemica sull’emigrazione, quella sul franco coloniale, quella sull’ospitalità offerta ai terroristi latitanti, ecc., anche se tutti in una volta hanno più il sapore della spettacolarizzazione ad uso interno che quello della razionale volontà di risolvere problemi. Ma l’incontro di un vicepresidente del Consiglio con esponenti dei gilet gialli è oggettivamente, per ciò che questi rappresentano lì e per ciò che il gesto rappresenta in sé, un atto di sfida a cui non poteva non seguire una reazione forte.
Reazione che c’è stata, e reazione molto grave perché è il passo che precede la rottura delle relazioni diplomatiche, che speriamo non ci sia, ma il cui pericolo il presidente Mattarella ha visto bene e di cui ha perfettamente capito la portata. Nelle relazioni tra stati non c’è nulla di più importante degli atti formali. Ciò che colpisce dunque, anche se non meraviglia, è l’insipienza e l’irresponsabilità dei comportamenti che si adottano senza preoccuparsi delle conseguenze, come se ci fosse sempre il babbo che sta lì e corre ai ripari. Ma non sempre il babbo può riparare l’errore. Soprattutto in casi come questo, in cui non si capisce dove si vuole andare a parare. Oltre a soddisfare le pulsioni nazionaliste, oltre a contribuire a distruggere le relazioni diplomatiche e ad indebolire l’Europa, quale obiettivo si vuole perseguire? Le conseguenze possono essere pesanti. Siamo sicuri di poter reggere l’impatto sui diversi fronti già aperti e sugli altri che si apriranno? O andiamo tranquilli “à la guerre comme à la guerre”?