di Gabriele Marcheggiani
Parlare di agrobiologia e di pratiche sostenibili di coltura e allevamento, è divenuto argomento urgente e pressante, non più riservato a poche persone: organizzato da Cittaslow con il titolo emblematico “Essere contadino green”, l’incontro tenutosi nella consueta cornice orvietana di Palazzo del Sette è stato un momento di riflessione e dibattito.
Agrobiologia, buone pratiche di coltura e allevamento, ritorno alla terra con cura e passione, massima attenzione all’ambiente e alla salute dei consumatori, produzione di reddito: su questi argomenti si sono sviluppate oltre due ore di relazioni e dibattiti che hanno catturato l’attenzione dei partecipanti. Un ritorno alle pratiche antiche, quelle che per millenni hanno consentito all’uomo di vivere in simbiosi con la terra, rifuggendo tutto ciò che è avvenuto nell’ultimo mezzo secolo con l’industrializzazione massiva dei processi produttivi in agricoltura e negli allevamenti.
Con toni quasi poetici, Stefano Fogacci, proprietario di un’azienda agricola sull’Appennino modenese, ha ripercorso la storia della sua famiglia e la sua scelta di oltre trent’anni fa, di praticare un percorso produttivo ancorato a un sapere antico e a un’etica che affonda le sue basi nel rispetto dei cicli biologici della natura e nell’amore per la propria terra. Con una scelta controcorrente per l’epoca, in un periodo di estreme trasformazioni, nel quale il mero profitto sembrava regnare su tutto, Fogacci ha saputo resistere, fermo nei suoi valori, indicando una via nuova – che poi è quella antica – di approccio alla terra, riuscendo a trarne anche un reddito sufficiente a vivere e a mandare avanti la sua molteplice attività.
Ideatore tra gli altri del “Festival del Letame”, l’agricoltore modenese quando può gira il mondo, entrando in contatto con realtà rurali diverse, in America Latina e in Asia, in un ricco scambio di esperienze e di lavoro, facendosi anche latore di istanze e rivendicazioni di quelle popolazioni, spesso vessate dalla multinazionale di turno, in lotta per la difesa del bene primario che è la propria terra.
Ma i problemi non mancano neanche nel nostro territorio, come rimarcano Claudia Consalvo, fiduciaria Slow Food di Orvieto, ricercatrice del CNR e contadina a sua volta e Francesco Basili, allevatore orvietano. In particolare la Consalvo pone l’accento sul problema tipico delle nostre, che è quello dell’abbandono della terra: anche qui occorre tornare al passato per poter guardare al futuro.
L’agroforestazione ad esempio, potrebbe essere quella buona pratica, antica di millenni e abbandonata dallo sfruttamento intensivo e meccanizzato degli ultimi cinquanta anni, che potrebbe coniugare rispetto per l’ambiente, diversificazione delle attività sul terreno e anche produzione di un certo reddito. In un perenne accordo tra esseri viventi, l’agroforestazione altro non è che la pratica volta a far convivere nel medesimo territorio, alberi, colture e allevamenti, diversificando la capacità produttiva e arricchendo l’ambiente stesso rispetto alle pratiche di monocoltura: dove c’è agroforestazione, c’è biodiversità e dove c’è biodiversità c’è vita e rispetto per la stessa.
Numerosi studi hanno portato alla luce gli estremi vantaggi di questa pratica, per l’ambiente, per la produzione e per la salute stessa dei consumatori: la diminuzione dell’apporto dei concimi chimici e un aumento di quelli naturali, l’aumento della resa dei terreni, la diversificazione della produzione, la prevenzione di erosione e inquinamento, la salvaguardia della biodiversità, fanno di questa pratica la risposta probabilmente più valida ed efficace alla sostenibilità e alla salvaguardia della salute dell’uomo e del pianeta.
“Un ritorno a certe pratiche è fondamentale anche per la qualità di ciò che mangiamo e per la nostra salute” conclude Consalvo. Perché, come non ha mancato di rilevare Basili, per guardare in avanti c’è bisogno di saper tornare al passato, di resistere praticando quelle ricette che per millenni hanno certificato il rapporto simbiotico tra uomo e ambiente. Chi sceglie la terra oggi lo fa per estremo amore nei suoi confronti, per rispondere ad una vocazione sincera e spesso senza compromessi, come hanno sottolineato i tre relatori, ciascuno con la propria esperienza.
“Pochi anni fa – ha aggiunto Basili – da queste parti è comparso il lupo e il mio allevamento di ovini è stato attaccato a più riprese subendo perdite molto consistenti. Ma il problema non è stato il lupo in sé, che ha fatto il suo mestiere, ma quelle scelte scriteriate nel corso degli anni, che hanno permesso un eccessivo ripopolamento di cinghiali, daini e caprioli di cui il lupo va a caccia e che ne hanno consentito l’avvicinamento in zone dove prima le sue apparizioni erano rare se non nulle”. C’è sempre la mano dell’uomo in queste trasformazioni, in questa ricerca ossessiva di consenso e di profitto. Con gli evidenti cambiamenti climatici in atto, causati in primo luogo da uno sfruttamento scellerato delle risorse della Terra e dall’inquinamento, il ritorno ad un nuovo accordo, ineluttabile, tra l’uomo e il suo ambiente, si fa sempre più pressante. La riflessione che ne scaturisce è sul futuro stesso di questo pianeta, drammaticamente messo in discussione dalla cupidigia e dalla sete di profitto, che ha portato le lancette dell’orologio della vita sulla Terra a pochissimi minuti dalla sua estinzione.