di Franco Raimondo Barbabella
Si sa che tutto ciò che ha valore, cose e persone, dura nel tempo. Ai personaggi di valore accade poi di essere riscoperti a distanza di anni come fari che illuminano la notte scura. Sta accadendo a don Luigi Sturzo, il prete siciliano che cento anni fa (era appunto il 18 gennaio 1919) pubblicò l’Appello per la fondazione del Partito popolare “Ai liberi e forti”. Certo, c’è il rischio di una riscoperta strumentale da parte dei molti ipocriti che sanno di fare il contrario di ciò che lì si dice e si vuol significare, ma non c’è dubbio che si tratterà comunque di cosa importante se essa sarà presa sul serio da coloro che ancora, e soprattutto ora, non sono disposti a lasciar confondere popolarismo con populismo, come ci si augura.
Perché appunto le due cose, popolarismo e populismo, non si possono e non si debbono confondere, come ormai da tempo ci spiega ad esempio Luca Diotallevi su Avvenire. Ecco come Diotallevi presentava le due diverse visioni lo scorso 26 maggio: “Al populismo si può contrapporre il popolarismo (di Sturzo e De Gasperi). Alla idea ‘populista’ di popolo – omogeneo, umorale, soggiogato, egoista – si può contrapporre un’idea ‘popolare’ di popolo: fatto di varietà e differenze, di libertà e responsabilità, di diritti e di limiti; un popolo senza padrone e senza stregone, senza domatore e senza avvocato. Alla tribù si può opporre la civitas. Il caso del giudizio sulla Unione Europea può fornire l’esempio migliore. … Non tanti fragili e ridicoli microStati come quelli di Salvini e Di Maio, magari vassalli allo ‘zar’ russo Putin, ma sistemi di sussidiarietà verticali e orizzontali a servizio di una ‘società aperta’ di dimensioni continentali. Come si volle a metà degli anni 50 del Novecento e come è ancora possibile”.
Ecco, la società aperta contro la società chiusa. L’Appello di don Sturzo ha qui il cuore della sua dirompente attualità, come scrive Marco Bentivogli su Il Foglio di sabato, perché “Sturzo ci parlava di una società senza centro e senza vertice, che vedeva la modernità e il progresso non come ostacolo ma come tempo favorevole, ‘drammatico e stupendo’”. Egli aveva infatti idee disallineate con il conservatorismo ecclesiastico e laico del tempo: parlava di libertà comunale e locale, di sistema elettorale proporzionale non escludendo il voto alle donne, di abolizione della coscrizione obbligatoria, di difesa della piccola proprietà contro il latifondo. Organizzò cooperative rurali e bancarie, aprì scuole, fondò giornali. Aveva capito per tempo i pericoli dello “Stato imprenditore”, verso cui nel secondo dopoguerra si sarebbe indirizzata la Democrazia Cristiana, e denunciava già i pericoli dello statalismo, della partitocrazia e dello sperpero di denaro pubblico.
Un politico a tutto tondo, un intellettuale lungimirante, un uomo onesto. Il suo Appello, squisitamente politico, di natura “democratica e liberale” come dice Ernesto Galli della Loggia, era rivolto “a tutti gli uomini liberi e forti … senza pregiudizi né preconcetti, perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”. Pagò, com’è noto, per la sua lungimiranza e il suo coraggio. Lo ha riconosciuto lo stesso cardinale Bassetti. Le gerarchie lo isolarono, i liberali e i socialisti non agganciarono la novità politica che rappresentava quel documento. Furono determinanti le agitazioni del “biennio rosso”, fu determinante la paura del comunismo, del “facciamo come in Russia”. Vinse il fascismo. Sturzo, come altri, lo sappiamo, dovette andare in esilio.
Ma anche nel dopoguerra, a guerra finita e a democrazia riconquistata, Sturzo fu combattuto aspramente e così restò deliberatamente fuori da quel partito dei cattolici (che nel frattempo era diventato DC) che pure aveva fondato. La sua amarezza si coglie tutta nella lettera del 4 ottobre 1951 in cui tra le altre si leggono queste parole: “Io non ho nulla, non possiedo nulla, non desidero nulla. Ho lottato tutta la mia vita per una libertà politica completa, ma responsabile”. Nel 1948 aveva scritto: “La libertà è come l’aria: si vive nell’aria; se l’aria è viziata, si soffre; se l’aria è insufficiente, si soffoca; se l’aria manca si muore”. Abbiamo una missione: non dobbiamo mai dimenticare queste parole, e dobbiamo farle vivere nella realtà.
Ecco, tutto indica una distanza abissale con ciò che oggi sperimentiamo. Oggi, il tempo in cui “webstar a caccia di clic e politici senza radici” ci fanno sentire “il crescente bisogno di riferimenti forti, e liberi” (Bentivogli). Qui c’è il punto di un ragionamento possibile, e perciò anche necessario. Si tratta di nuovo di mettere a confronto culture ed esperienze non solo compatibili ma capaci di arricchirsi vicendevolmente, essendo cadute le bandiere delle lacerazioni ideologiche ma non la validità delle idee. In nome di ideali di autentica libertà e di autentica democrazia, con una visione del mondo poggiata sull’idea di società aperta, animati da uno spirito europeista decisamente riformatore, potremmo davvero rappresentare quella speranza di futuro che le chiusure populiste e sovraniste ci stanno pericolosamente negando.