di Franco Raimondo Barbabella
Si sa che la storia non si ripete. Però, come pare abbia detto Mark Twain, “History doesn’t repeat itself, but it does rhyme” (La storia non si ripete, ma fa rima). Con un’espressione meno elegante potremmo dire che la storia come minimo si annusa, significando con ciò che talvolta presenta analogie così significative che sembra ripetersi. Sono tanti e diversi gli esempi che si possono portare: dalle analogie con l’oggi delle vicende della democrazia ateniese nella ricostruzione magistrale che ne fa Luciano Canfora ne “Il mondo di Atene”, fino al paragone proposto da Wolfgang Münchau, nel maggio dello scorso anno sul Financial Times, tra la situazione odierna dell’Italia e quella della Repubblica di Weimar: crisi allora delle élites liberali e analoga crisi oggi delle élites moderate, europeiste e appunto liberali, con le connesse tendenze a fare a meno della democrazia rappresentativa a favore di un rapporto diretto del capo con la folla, secondo la bella analisi di Emilio Gentile.
Ma il paragone più calzante mi sembra quello con il “diciannovismo”, termine con cui Pietro Nenni indicò l’atmosfera che si respirava in Italia nel 1919, atmosfera nella quale si svilupparono i processi e furono compiuti gli atti che avrebbero portato all’instaurazione del regime fascista. Non che si ritenga che l’attuale situazione sia una riproduzione di quella né che il governo attuale sia formato da forze tendenzialmente fasciste, ma che si respiri un’atmosfera impregnata di irrazionalismo, di spirito giustizialista illiberale e di pulsioni tendenzialmente antidemocratiche è difficilmente contestabile. Per cose già dette e viste, ma soprattutto per ciò che emerge attualmente in ragione delle analogie (ormai ufficialmente rivendicate) con il movimento dei “gilet jaunes”.
Leo Longanesi descriveva così gli aderenti ai “Fasci di combattimento”, il movimento fondato da Benito Mussolini nel 1919: “facinorosi, violenti, spostati, ammazzasette … vaghi fanatici che s’agitano senza sapere il perché, contro quel che non conoscono, più per un naturale bisogno di esaltarsi e d’inveire che d’altro: incapaci di vedere chiaro nelle idee proprie, condannano quelle altrui”. Solo solo analogie, certo, con le tipologie umane di oggi: per fortuna non siamo usciti dalla carneficina di una guerra come nel ’19, ed è singolare che nessuno si ricordi del fatto che da oltre settant’anni l’Europa non conosce guerre sul suo territorio.
Però come non riconoscere validità (e invito a pensare) all’analogia di quell’atmosfera con il movimentismo odierno, come emerge in un articolo del politologo Manlio Graziano intitolato “Il nuovo diciannovismo” pubblicato su “la Lettura” ora in edicola? Dice Graziano: “Ma la storia rima con se stessa: l’agitazione confusa, le parole d’ordine tanto perentorie quanto inconsistenti, il disprezzo per la democrazia liberale, la ricerca febbrile di un capro espiatorio qualunque su cui scaricare colpe sconosciute e, soprattutto, il caparbio e compiaciuto rifiuto di riconoscere i vincoli posti dalla realtà sono alcuni tra i lasciti più cristallini del 1919 alla sua rima di cent’anni dopo. In questo senso, l’eco di quel diciannovismo è chiara e forte, l’eco di quel movimento che fu al tempo stesso repubblicano e monarchico, cattolico e ateo, di destra e di sinistra, futurista e classista, liberista e protezionista, antitedesco e filotedesco. … Il diciannovismo era – ed è – anche questo: muoversi per non stare fermi, pur non sapendo dove andare”. Io credo però che ci sono coloro che magari non hanno chiara la direzione del cammino, ma sanno benissimo cosa vogliono, ossia il potere, senza fermarsi di fronte a impegni presi, parole dette, rispetto delle regole.
Come detto, il diciannovismo di oggi non è il frutto dei disastri di una guerra. Appare invece piuttosto come frutto della crisi indotta dalle vicende americane del 2007/8, di cui, al di là di quanto già accaduto, si temono i disastri ulteriori, la perdita di posizioni sociali già godute e forse soprattutto l’arretramento rispetto ad aspirazioni e ambizioni. Non è difficile infatti intravedere anche qui i tratti individualisti visti da Gaetano Salvemini nel movimento fascista: “la paura piccolo-borghese di perdere quel poco che si è riusciti a raggranellare, con la differenza [però] che quel poco del 1919 è oggi diventato molto di più”.
Per tutto ciò il movimento dei “jilet jaunes” rappresenta meglio di altri il compendio del diciannovismo contemporaneo, essendo nella sostanza quello che ha i caratteri più vicini al diciannovismo originario. “Da una parte la convinzione che i soldi ci sarebbero, se ‘altri’ (i ricchi, i profittatori, la finanza, gli immigrati, gli ebrei) non li stornassero a loro profitto; dall’altra, il gusto tutto francese per la barricata, per l’ennesima messa in scena, in forma di farsa, della tragedia rivoluzionaria” (Graziano). E insieme a ciò l’ossessione del populismo globale: l’eliminazione delle regole istituzionali della democrazia liberale, viste come impacci nel rapporto tra potere e popolo.
A me pare che dalle trasformazioni che avvengono sotto i nostri occhi due aspetti, tra gli altri, meritino particolare attenzione:
1. Non è più vero, anzi non è del tutto vero, che i movimenti estremisti che entrano nell’area del potere si adeguano alle regole, le assorbono, e semmai le adeguano; qui siamo di fronte a tutt’altra situazione: si usano le regole che usavano prima gli altri nella misura in cui conviene per affermare il proprio potere, ma poi si adottano altre regole in base al principio che ora comandiamo noi e le regole sono quelle che piacciono a noi; fine dell’interesse generale: la competizione per il consenso giustifica qualsiasi piroetta e qualsiasi contraddizione; fine della verità che tutti possono constatare: la verità è una competizione virtuale.
2. Non è più vero che i movimenti estremisti, una volta istituzionalizzati, impediscono il sorgere di movimenti più radicali che mettono in discussione gli assetti pure rinnovati e producono disordine e violenza. I gilet jaunes lo dimostrano in Francia. In Italia no, almeno finora, non solo perché quel confuso estremismo lo interpretano i due soggetti al governo, ma perché quei due soggetti con i nuovi estremisti ci flirtano, gettano là strizzate d’occhio e propongono collaborazioni. Un mix confuso ma francamente allarmante, perché prima o poi invocherà, direttamente o indirettamente e più di ora, ordine e disciplina da parte e a favore di gruppi di comando ristretti. Questi fenomeni hanno sempre un termine e normalmente non è favorevole al popolo proprio nella misura in cui dal popolo è applaudito.
In realtà dunque nella storia nulla si ripete se non trasformando la tragedia in farsa, ma in fondo tutto si tiene, nel senso che la lettura attenta del passato può essere utile per capire il presente, a patto però che a capire ci sia interesse e che da esso derivi l’impegno a modificare ciò che appare confuso, inadeguato o pericoloso. Io credo che la realtà attuale sia non solo piena di ambiguità, di cose non chiare, ma anche di tendenze pericolose. Mi auguro che anche chi fa finta di niente finalmente ne prenda coscienza. Guai a cavarsela con un’alzata di spalle.