Sul discorso di fine anno del Presidente Mattarella.
Pare che ancora non sia vietato pensare che la realtà può essere diversa, migliore di quello che è
di Franco Raimondo Barbabella
Il discorso di fine anno del Presidente Mattarella è stato tutt’altro che rituale. Come hanno notato alcuni, al di là delle puntualizzazioni su diversi aspetti dell’azione di governo e del costume pubblico, ha delineato una concezione dello stato e proposto una visione della politica molto diverse da, se non antagoniste con, quella che la maggioranza legastellata e i suoi maggiori interpreti presentano costantemente come espressione della volontà popolare.
Non ha solo detto che la sicurezza è “un ambiente in cui tutti si sentano rispettati e rispettino le regole del vivere comune”, che i problemi non vanno nascosti e che le “competenze sono necessarie”, che le divise non sono felpe da compagna elettorale ma simboli “di istituzioni al servizio del cittadini” e che le forze armate non possono essere usate per chiudere le buche, o che non si possono mettere le tasse “sulla bontà”. Ha detto anche molto altro.
Ha detto che “la dimensione europea è quella in cui l’Italia ha scelto di investire e di giocare il proprio futuro” ed ha conseguentemente espresso soddisfazione perché è stato trovato un accordo ed è stata così evitata la procedura d’infrazione. Con una marea di considerazioni sottintese. Non sono invece sottintese la affermazioni che riguardano la democrazia.
Il Presidente è stato chiarissimo: i provvedimenti legislativi vanno discussi sul serio, i tempi del dibattito parlamentare non si possono comprimere fino all’insignificanza del confronto. Con la conseguenza che i provvedimenti attuativi della legge di bilancio ora vanno portati ad un effettivo confronto con le forze parlamentari e con le espressioni organizzate della società, quei corpi sociali che sembrano tanto infastidire i nuovi fan della democrazia diretta. Appunto una visione: un contesto, argomenti solidi, un metodo. Direi il senso di una storia importante, quella di un Paese che non è né “un’espressione geografica” né un giocattolo nelle mani di gente smaniosa. Un Paese che vuole stare nel mondo con piena coscienza di sé e appunto del mondo.
Questa proposta di una visione larga e robusta, di fatto alternativa all’altra (diciamolo, un po’ furba e un po’ irresponsabile), fa capire che siamo un Paese davvero malmesso, immerso in una crisi di sistema da cui sarà difficile uscire. Due aspetti, che vanno oltre l’economia e le debolezze strutturali, balzano su con prepotenza: l’ignoranza diffusa e i contrasti laceranti. Problemi serissimi che si rincorrono e si avvitano. E che richiamano alla memoria il contributo di analisi e di proposta delle forze intellettuali del Paese, sia del passato lontano che di quello recente.
Poco meno di dieci anni fa il grande linguista Tullio De Mauro rilevava come “Soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”. Non pare che oggi le cose siano significativamente migliorate. Poco più di cinquecento anni fa il fondatore della politica come scienza autonoma, Niccolò Machiavelli, individuava nella mancata unità a causa del particolarismo l’origine della debolezza dell’Italia, diventata per questo terra di conquista, e nelle lotte di fazione la causa della decadenza di Firenze. Nonostante tutto, il particolarismo (che quando si combina con i ricorrenti tentatiti di neocentralismo diventa un mix potenzialmente esplosivo), oggi come ieri, è all’origine della debolezza del Paese e lo rende esposto ai venti che spirano da nord a sud o da est a ovest, come le lotte di fazione rendono spesso deboli e decadenti città altrimenti dotate di ruolo e vocate allo sviluppo.
De Mauro sapeva bene che “La democrazia vive se c’è un buon livello di cultura diffusa”, per cui alla radice del “caso Italia”, oltre ad un problema di informazione c’è un problema di formazione e di cultura. Molto tempo prima a sua volta Machiavelli sapeva altrettanto bene che “Le gravi e naturali nimicizie … sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città” e che però a seconda delle situazioni gli effetti possono essere molto diversi: a Roma i contrasti trovavano composizione con la discussione e la legge; a Firenze con l’esilio e la morte degli avversari. Se si vuole guardare al futuro dunque, dando per scontato che il conflitto è il sale delle società sane – questo il messaggio -, meglio guardare all’esempio di Roma che a quello di Firenze.
Non so se il presidente Mattarella nel lanciare messaggi di compostezza e di competenza, di unità e di solidarietà, di spirito costruttivo e di rispetto delle regole democratiche, aveva in mente tutto ciò, ma questo mi pare il senso che comunque se ne può cogliere. In ogni caso a me piace pensare che questo volesse significare. Se non altro perché con ciò si dimostra che non siamo ancora giunti all’epoca del pensiero unico. Naturalmente non è detto che “un altro mondo è possibile”, ma almeno non pare ancora vietato pensarlo.