Era un ragazzino Reno quando si trovò coinvolto, ma proprio per caso, in una strage di lampadine nei tempi in cui si correva a scavezzacollo con i calzoni corti d’estate e d’inverno per i vicoli bui di Orvieto a colpire con la fionda le fioche lampadine, gocce di luce pendenti dai lampioni appesi al tufo delle case. Per la verità lui non aveva né fionda né sassi e quindi fu spettatore impaurito e alquanto celato con l’ordine tassativo di avvertire se fosse arrivata la Guardia, il terribile Mammanco, forse colui che ebbe a dire a dei ragazzini vocianti di sberleffi e di urla verso le due di un pomeriggio assolato: “Voe state facendo certi schiamazzi che io oserei definire notturni”.
Partì una denuncia contro ignoti e Reno, tramite gli amici, lo venne a sapere. Accadde allora una cosa eccezionale che gettò in acuta costernazione la famiglia Montanucci: Reno aveva cessato di mangiare. Il fatto che uno come Lui che secondo una tacita, muta complicità con Nello, il vecchio pasticcere, ogni domenica prima della Messa, attraversati i mille irresistibili aromi della pasticceria, trovava sei bignè alla crema di zabaione amorosamente ricoverati sotto un candido panno di lino e quando era arrivato sulla porta del caffè li aveva fatti fuori pur con una certa innata, naturale raffinatezza non toccasse più cibo, era un colpo inatteso, motivo di forte apprensione familiare.
Il sòr Fernando, il babbo, lo prese allora da una parte: “Che cià ‘sto fijo mio? Perché non magna? Come mai è bianco come ‘na scorreggia? Che jé succede, non se sente bene?..Non jé vòle dì gnente a ‘l su’ babbo?.. Reno non vide l’ora di raccontare tutto. Disse di come si era trovato con quegli sciagurati dei suoi amici per caso a correre per vicoli, che si era nascosto a vedere della Guardia ma non aveva tirato un sasso ch’era uno e che, mentre era lì nascosto dietro la fontanella, erano passati due signori, amici di Fernando, uno dei quali lo aveva salutato dicendogli: “Che fai cocco, gioche a nascondino?..
Fernando capì. Rassicurò il figlio, gli disse di non preoccuparsi ché lui non aveva fatto niente di male, che il babbo gli credeva perché lui era un figlio buono e che, se casomai lo avessero chiamato i carabinieri, lui gli avrebbe messo l’avvocato e poi lo fece sentire forte: “C’émo i testimoni. Vedrai, diranno che giocavi a nascondino. Quando ce so’ i testimoni devi sta tranquillo, guai a chi te tocca, capito cocco?..
Reno, un paio di secondi dopo ricominciò a mangiare e, conoscendolo, posso azzardare senza temere l’errore, che in un brevissimo lasso di tempo recuperò i giorni di digiuno consegnando i piatti, come continuerà a fare per tutta la vita, come se fossero lavati con il Dush.
Passò del tempo. Reno era andato rafforzando le sue certezze. Nessun timore ormai, semmai una sfida. Così, un giorno di pomeriggio che si trovava solo in casa, suonarono alla porta di sotto. Andò al citofono: “Chi èèè..?.. “Siamo i testimoni di Geova.. “No regà, a noi non ce serve niente, ‘l mi’ babbo me mette l’avvocato e si è pe’ li testimoni, quelli ce l’émo anche troppi..Ce vedemo..
Reno è questo, un uomo sospeso sul mondo. Un tenero, rilassato, sorridente amico che per anni ha dato il buon giorno a Orvieto. Lui continua a sorridere se cammina, se saluta, quando mangia innalzando il suo maritozzo a mò di trofeo come un bambino che ne mostra la bontà. Sorride sempre Reno con la sua bocca tumida di aguzzo prete di campagna.
Sorride alla vita che lui ama per ciò che gli dà: una rosa fiorita, un’aria fredda, un bagno quando l’aria è frizzante, un campo di grano, un piatto di pasta con il tavolo della trattoria all’aperto davanti il tramonto, una strada di terra che finisce dove iniziano i cipressi della Toscana (quanti Mercoledì, quando il Caffè chiudeva per il turno, con la sua Uno Fiat detta Renomobile a scoprire strade alternative, viottoli, scapicollatoi, vecchie trattorie casalinghe, famiglie che gli suoni e ti fanno trattoria e viceversa, zuppe straordinarie, pesci cucinati non ho mai capito in quale luogo, forse estinti da secoli, affreschi sorprendenti in chiesette abbandonate, fettuccine riprese due volte anche tre, palazzi antichi, il castello di Vulci, le pozze di acqua calda in mezzo alla campagna della Tuscia adorata e le piante). Le piante. Quelle degli orti orvietani (così li chiamava) le conosceva una per una come fidanzate che ne attendevano il passaggio. “Là, in quell’orto, mio caro amico, c’è una Begonia straordinaria, di là, un piccasorce eccezionale.. È meraviglioso: avrà più 200 anni”.. Sorride Reno con la curiosità rinnovata del fanciullo davanti ai fenomeni nuovi e sorprendenti.
È un uomo dell’800 sceso sulla terra a contemplare con occhi nuovi la sua città. Venne al Bar una sera d’estate da Piazza della Repubblica petto in fuori, capoccione eretto e due occhi sbalorditi. (Aveva la Uno bianca nuova di zecca acquistata dopo l’indistruttibile 128, con la retromarcia, optional al tempo affascinante, che accendeva la luce posteriore): “Ho messo la marcia indietro” mi disse: “Tu non ci crederai, mi so’ girato e me s’è illuminato tutto il Comune”. Ha sorriso Reno sul parapetto del mondo affacciato e sospeso senza mai atterrare, tantomeno cadere. Eppure ha lottato, sofferto, lavorato con impegno e passione. È un uomo leggero, volante, radente, avulso dal tritume terreno, aristocratico senza blasone. Non muore Reno, né morirà. Resterà il suo sorriso a labbra chiuse, la sua panciuta leggerezza, il fruscio rassicurante, una dispensa di umore, un esempio di valore vitale.
Non è morto né morirà ciò che portiamo di lui, la bellezza della vita, le bellezze della vita, la leggerezza che non pesa sugli altri, mai, nemmeno nella morte, riservata, accaduta nel tempo di un ciao. Morirà soltanto, Reno, il mio immenso amico Ronny, quando le begonie, il piccasorce, le azzalee dei giardini ridenti della sua città dove lui vive nascosto e la sua più grande meraviglia, come se ogni volta li avesse visti per la prima volta: i capperi abbarbicati al tufo della Rupe, diverranno secchi.
Gianni Marchesini.