È ora di tornare a ragionare del futuro della città
di Franco Raimondo Barbabella
In questo mondo che si muove freneticamente senza alcuna direzione apparente, nulla appare scontato. Ed in effetti così è. Tuttavia, che la nostra città con il suo vasto territorio di riferimento abbia risorse che potrebbero essere spese meglio e potenzialità che potrebbero essere meglio utilizzate credo che, se non è incontrovertibile per tutti, lo sia almeno per molti. Da ultimo lo ha dimostrato il successo del festival di filosofia, che ha coinvolto studenti e docenti di Orvieto e di una vasta area, da Montefiascone ad Acquapendente fino a Terni, e anche una parte rilevante della città, singoli cittadini, istituzioni, corpi intermedi, esercizi commerciali.
Il messaggio è: Orvieto sul mercato culturale può essere convincente e protagonista, può ospitare attività di livello alto, può unire le forze, può costruire qui un pezzo rilevante del suo futuro. Manca però qualcosa, ed è cosa di non secondaria importanza. Manca la convinzione che questo sia possibile e necessario, ciò che si traduce in distanza marcata tra dichiarazioni formali del mondo istituzionale e politiche pensate e concretamente praticate: non si investe sul serio in questo ambito e in una prospettiva ampia, si seguono le spinte e le improvvisazioni; alla fine ci si arrangia e le iniziative magari sopravvivono ma non decollano. Così tutto diventa frammentato e precario. Un limite serio.
Cicerone era convinto che la storia avesse un potere di ammaestramento (“historia magistra vitae”). Noi sappiamo che non è così: gli uomini hanno bisogno di sbatterci la testa prima di capire che le esperienze già fatte possono insegnare qualcosa per evitare gli stessi errori o per lo meno per trarre da esse ispirazione e spinta. E Orvieto rende questa verità del tutto lapalissiana. Da che cosa lo si evince? Dal fatto che tutte le discussioni avvengono prescindendo sia dalla storia che dal contesto in cui ciascun problema si colloca. Si possono fare molti esempi. Prendo gli ultimi.
Si discute se sia vero o no che è un successo aver deciso che la palazzina comando della ex Piave per i prossimi dieci anni ospiterà il liceo artistico. Oppure si discute se per calmierare il prezzo delle case sia o no opportuno agire con la leva urbanistica incrementando la disponibilità di abitazioni. Non entro qui nel merito; mi limito solo a rilevare come in questi e in molti altri casi si prescinde sempre dal contesto, non si connette il particolare con il generale, cioè con il tema cruciale di che cosa si vuol fare di questa città, che non è tema astratto ma guida essenziale per le soluzioni.
Ad esempio, si dovrebbe tener presente che la leva urbanistica è stata già abbondantemente usata allo scopo di incrementare il patrimonio abitativo, ed è questa esperienza che rende evidente che l’incremento di abitazioni di per sé non risolve i problemi, che anzi li aggrava tutti se non è inserito in una politica generale che dia un senso alla cose che si fanno. Ciò che dovrebbe essere ancor più chiaro quando si parla di scuola, di edifici e di attrezzature per l’educazione. Penso che ci si dovrebbe chiedere se sia una soluzione quella che isola la sede di un istituto dal tema più generale (e di fondo) di come oggi dovrebbe essere organizzato il sistema di istruzione e formazione del nostro territorio perché sia utile sia ai giovani che alla comunità. Insomma, va tutto bene?, lasciamo tutto com’è oggi? Peraltro credo che non sia nemmeno secondario porsi il problema del destino dell’ex Piave perché da lì passa gran parte del rilancio di Orvieto in una prospettiva territoriale. E come mai potrà avvenire questo se si continua a fare lo spezzatino delle destinazioni, impedendo così di fatto una qualsiasi operazione che abbia lo spessore di un progetto per il futuro, com’è arcinoto!
C’è stato un tempo in cui si è ragionato in modo strategico. Ci si è mai chiesti che cosa sarebbe accaduto se a suo tempo, a seguito dell’allarme per il degrado della rupe, invece di elaborare un progetto complessivo di risanamento e valorizzazione del centro storico e delle sue pendici (un progetto appunto a scala territoriale ed esemplare insieme per ambizione e realismo), ci si fosse limitati a prevedere un intervento sui singoli punti di frana, cioè interventi puntiformi, come va di moda da diverso tempo a questa parte? Non avremmo avuto tutto ciò che il Progetto Orvieto ha significato in termini di risanamento complessivo, di infrastrutture, di lancio internazionale, di dotazioni per la cultura e il turismo che oggi esistono. Magari non ce ne accorgiamo, ma esistono. E ci si è mai chiesti almeno di recente che cosa sarebbe al contrario accaduto se, invece di boicottare il progetto RPO per la ex Piave in connessione con l’ex ospedale e altri edifici pubblici e privati della città, si fosse permesso di realizzare quel progetto? Non avremmo certo risolto tutti i problemi, ma di sicuro avremmo una città che non sarebbe emarginata e in difficoltà come è oggi.
Due riferimenti metodologici, una prova e una controprova, per una strategia di sviluppo rispettosa della storia e nel contempo coraggiosamente proiettata verso un futuro possibile. Di questo bisogna tornare a ragionare. Non è più il tempo delle toppe, è di nuovo il tempo delle strategie: ad un mondo che soffre l’instabilità non si può offrire l’improvvisazione ma semmai la creatività; ad un mondo che chiede armonia e bellezza non si può offrire disordine e bruttezze; ad un mondo che chiede identità e distinzione non si può offrire omologazione, che è sempre tendenza verso il basso.
Di questo bisogna tornare a ragionare, e appunto di questo ragioneremo venerdì prossimo a Palazzo dei Sette.