di Massimo Gnagnarini ex assessore al bilancio
A sei mesi dal Contratto nazionale di governo la vorace competizione per il potere unisce gli uni contro gli altri entrambi irrisi nella bolla di una fraudolenta e cinica devozione al potere sovrano del popolo. Se è impossibile sapere come finirà la tragica farsa della manovra con tanto di dileggio verso i competenti da parte dei nulla sapienti sappiamo, però, che anche una stagione breve può portare grandi danni.
Tra meno di sei mesi si vota per il Comune e allora ai voglia a dire che le elezioni amministrative sono un’altra cosa, l’elettore va sempre dove lo porta il cuore e il cuore si non ha bisogno di pensare. Dubito che a primavera prossima il gradimento verso Lega e 5S si mantenga ai livelli attuali, ma ho meno dubbi nel pensare che non assisteremo affatto a un automatico riflusso dell’elettorato verso il PD.
E questo è il punto. Il PD come partito a vocazione maggioritaria è scomparso non a marzo del 2018 ma nel marzo del 2017 a seguito dell’esito del referendum che bocciò la Riforma Costituzionale. Non si è trattato di un semplice incidente di percorso della brillante leadership di Matteo Renzi, ma di un risultato che ha cancellato la ragione fondante di quel Partito che definendosi a vocazione maggioritaria aveva, per statuto, l’ambizione di riunire tutti i democratici, i liberali, i comitati civici e la galassia della sinistra italiana.Inutili si sono dimostrati, dopo il varo di una legge elettorale proporzionale, i tentativi di alimentare artificialmente un’area di centrosinistra piddicentrica ormai distrutta o cooptata attraverso la partenogenesi di formazioni politiche fiancheggiatrici rabberciate all’ultimo minuto beneficiarie con riserva di qualche poltrona in parlamento a favore dei soliti “culi” eccellenti.
Paradossalmente la forza del PD è stata ed è inversamente proporzionale alla capacità di rappresentanza delle forze cosiddette di sistema che costituiscono certamente i riferimento per la maggioranza degli italiani. Ergo se il PD si scioglierà , comprendendo la fine di un ciclo come fece la DC nel 1993, allora un “centrosinistra” europeista , liberale e progressista potrà riappropiarsi del destino comune offrendo alle nuove generazioni una prateria per coltivare l’alternativa al populismo sovranista e nichilista dilagante a Orvieto come in Europa e soprattutto a beneficio di buona parte di quella maggioranza silenziosa , quasi la metà degli italiani, che da anni non vota più.
In questo quadro gli orvietani il 26 maggio prossimo sceglieranno il loro Sindaco e la squadra di governo cui affidare le sorti della città. Lo strumento sarà un fiorire di liste civiche e indipendenti. Germani e la sua squadra hanno fatto bene perché , dopo anni di immobilismo sia di sinistra che di destra e dopo anni di abbandono della cultura del fare sacrificata al benaltrismo di comodo o all’analisi infinita, sono state compiute scelte comprendendo, finalmente, che amministrare la città non è come scrivere su un foglio le cose migliori da fare, ma per lo più, è scegliere di fare quelle possibili. Infatti per quanto alte e ambiziose siano le aspettative di una comunità locale è solo la loro sostenibilità finanziaria a renderle possibili.
Questa verità incontrovertibile ha caratterizzato, con il successo ottenuto attraverso il risanamento finanziario dell’Ente, il Germani 1.0 . Non so se ci sarà un Germani 2.0, ma so che la strada da seguire è quella già intrapresa.