Riprendo la rubrica del lunedì che per quasi nove anni ho tenuto con Pier Luigi. La sua improvvisa e dolorosa scomparsa mi aveva convinto a chiudere lì: rispetto per lui e mancanza di spinta da parte mia. Ma con il passare delle settimane questa decisione mi è parsa sempre più innaturale e quasi un tradimento. Avevamo deciso di continuare fino al compimento del decimo anno, rubrica numero 520; non ci si può fermare dunque al n. 463. So che non è la stessa cosa, ma mi illudo che in qualche modo lo spirito con cui iniziammo continuerà a vivere. Mentre scriverò continuerò infatti ad immaginare ciò che Pier mi avrebbe osservato. E sarò triste perché la sua opinione resterà solo nella mia immaginazione. Ma ci sarà.
Governo legastellato. Ma che abbiamo combinato?
di Franco Raimondo Barbabella
franco.raimonbar@gmail.com
La domanda non è mia. È di alcuni amici che il 4 marzo hanno votato chi per i Cinque Stelle e chi per la Lega convinti che quello era l’unico modo per cambiare una situazione generale da schifo con la speranza di migliorare una condizione personale insoddisfacente. Speravano nel cambiamento, pur non essendo chiaro che cosa in concreto ciò volesse dire. Cambiare, bisognava cambiare.
A loro tempo lo avevano detto anche Berlusconi e Renzi che bisognava cambiare e che loro erano gli uomini giusti del giusto cambiamento. Ma il loro cambiare era stato un fallimento. Ragioni diverse ma risultato identico: distanza abissale tra intenzioni iniziali e condotta reale, tra propositi e fatti, errori su errori, scontento diffuso, antiberlusconismo e antirenzismo a gogò. Da una parte narcisismo, potere che dà alla testa, demagogia, ambiguità e bugie, cerchi magici. Dall’altra difesa a oltranza di piccoli e grandi privilegi, invidia, idiosincrasia per progetti che impegnano, scarico di responsabilità, furbismo, complicità, falsità.
E gli atavici problemi dell’Italia e degli italiani inevitabilmente sempre lì, e più gravi. Molti ereditati dal passato, storici, ma molti alimentati proprio da decenni di malgoverno: clientelismo e nepotismo, pubblica amministrazione inefficiente, crescita del debito, corruzione diffusa, evasione fiscale endemica. E ancora e di più: disastro ambientale, infrastrutture fatiscenti e arretrate. Classi dirigenti improvvisate e impreparate ma con ambizioni smodate. Scuola inefficiente e stressata, ascensore sociale bloccato, ignoranza diffusa.
La crisi globale e le difficoltà indotte, l’indebolimento dei ceti medi e la paura di non farcela, il tutto aggravato da miopi politiche restrittive e dall’incapacità di capire le conseguenze dei fenomeni migratori, hanno creato le condizioni giuste perché un diffuso scontento popolare latente e una rabbia sapientemente coltivata da una borghesia irresponsabile trovassero il loro punto di condensazione.
Lo hanno trovato appunto il 4 marzo. Ed è nato, di necessità (al momento non c’era altra soluzione) e di convenienza (quale migliore occasione per soddisfare la fame di potere delle nuove élites in attesa?), il governo legastellato. È giovane, ha solo cinque mesi, ma nel governo oggi cinque mesi equivalgono ad anni di vita individuale. Alla sua nascita a maggio, e dopo per settimane, gli entusiasti del cambiamento rispondevano ad ogni obiezione d’istinto e anche ad ogni critica ragionata che era troppo presto, che bisognava dare tempo al tempo, che le critiche erano solo pregiudizi.
Oggi è abbastanza quello che si è visto. In politica estera come in politica interna. In economia come in lavoro e in sicurezza sociale. In comunicazione come in affidabilità e in comportamenti reali. È un susseguirsi di dichiarazioni avventate e trucide, di bugie dette con sconcertante impudenza. Invocano in ogni occasione il consenso del popolo ma fanno esattamente il contrario di ciò per cui hanno chiesto ed ottenuto quel consenso. Vogliamo dire Ilva, Tap, clientelismi, rimpatri, competenze, condoni? Vogliamo dire operazioni per la crescita? Vogliamo dire competenza e credibilità?
Chi volesse giudizi liquidatori oggi ne trova quanti ne vuole. Ma pare che valgano poco, perché i sondaggi danno risultati molto buoni, più per Salvini che per Di Maio, ciò che alimenta una feroce competizione a suon di dichiarazioni e colpi mediatici, scatenamento dei social e occupazione di spazi tv. D’altronde spesso i critici non sono credibili essendo gli stessi che hanno creato le condizioni del successo altrui. E le opposizioni, più che essere latitanti, non a caso non riescono a diventare a loro volta credibili, vera alternativa, scelta possibile per nuovi scenari di governo. In troppi difendono se stessi, più che ripensare ruoli e strategie. Fanno tattica, pensano al presente e al contingente e si lasciano sfuggire la forza del progetto e il fascino del futuro.
Siamo conciati male. Ma come sempre la storia non si ferma, ed oggi i fenomeni sono sempre più veloci. La realtà non sopporta troppo a lungo le bugie, e tanto meno la violenza al buon senso. I governi possono far male ma il limite si raggiunge sempre, anche se quando avviene in ritardo i guai saranno pesanti. La ragione non è del tutto sconfitta. La democrazia nella sua essenza è ferita ma non scomparsa.
Ci sono segnali di resipiscenza in diversi settori della società e in particolare proprio in quelli che in genere amano lo sfascio perché lì pescano meglio. Per il popolo forse è presto, l’incantesimo al momento continua, ma se le cose durano così anche gli eterni indifferenti dovranno svegliarsi e perfino gli entusiasti dovranno ammettere che il cambiamento che hanno votato non era altro che il classico “levate te che me ce metto io”, élites che scacciano altre élites. Con il risultato che tutto o quasi è come prima e peggio di prima, secondo lo storico adagio della nobiltà siciliana: cambiare tutto perché nulla cambi. Vogliamo dire RAI? Vogliamo dire Ischia? Vogliamo dire legge di stabilità?
Il vero cambiamento è altra cosa, è progetto razionale, bene comune e responsabilità. Aspettiamo e lavoriamo, senza cedimenti e senza timori, e magari gli amici di cui ho detto all’inizio non si sentiranno a lungo mosche bianche.