Gentile Sindaco,
L’esistenza di ogni attività commerciale, e di qualsiasi impresa manageriale, è soggetta a un inizio e a una fine. Estendere il tempo che intercorre fra l’uno e l’altra, dipende dalla nostra capacità di mantenerla in vita, come fa un medico, preservando la salute di un corpo umano. Non a caso, dunque,
Sergio Marchionne ha sostenuto che l’abilità di un imprenditore consiste non tanto nell’incrementare esponenzialmente i profitti, quanto nell’assicurare all’azienda una continuazione stabile, nel futuro.
E non a torto, in questi giorni, gran parte della cittadinanza orvietana si è espressa, anche con giudizi fortemente critici, sulla sorte della Libreria dei Sette. La vita di questa storica istituzione è sempre dipesa, come ogni attività commerciale, dall’abilità gestionale di chi l’ha presa in carico, e non dal finanziamento pubblico. Con quale coraggio, dunque, pretendere un intervento del Comune, e dello Stato? Se la stessa sorte fosse toccata a un’altra attività, non ci si sarebbe neanche sognati di appellarsi alla cosa pubblica.
Perché, allora, questi ripetuti appelli, e questa corsa disperata, al salvataggio di quella che è, a pieno titolo, una delle tante attività commerciali sofferenti, in un paese al collasso? La ragione è che una libreria non può essere considerata alla stregua di un’altra attività commerciale. Infatti, il prodotto che offre al consumatore risponde alle esigenze impostegli dalla sua stessa natura. L’essere umano non è una bestia. Non può vivere senza coltivare la ragione, e le sue facoltà superiori. La realizzazione, e il pieno sviluppo di queste facoltà, non è derogabile, non è procrastinabile, e non può essere oggetto di soppressione, specialmente in democrazia, dove l’essere dello Stato si fonda unicamente sul confronto razionale dei suoi cittadini, e delle sue parti costituenti. Abbandonare a se stessa una libreria, nel disinteresse della sua sorte, è dunque una colpa tanto grave da giustificare un appello alla cosa pubblica. E allora, i giudizi critici di molti orvietani colgono solo in parte la verità, presupponendo erroneamente che l’essere umano sia in grado di vivere senza realizzare la natura che gli è più propria.
Ma se le ragioni finissero qui, la mia lettera aperta avrebbe davvero poco valore. E infatti, mi rivolgo a Lei, Sindaco, anche come giovane italiano, quale io sono. Le generazioni di uomini che hanno gestito la cosa pubblica, in questo paese, dagli anni 70’ a oggi, sono colpevoli di non aver proiettato l’Italia nel futuro, di averla condotta all’immobilismo, per il mantenimento di sé, attraverso un’occupazione a sbafo della Pubblica Amministrazione, unica fonte di reddito per una mentalità squallida, che nulla intende costruire, o mantenere, se non in vista del suo proprio tornaconto. Questa è la causa originale della crisi a precipizio che l’Italia sta vivendo: l’avvicendarsi di persone incapaci di rappresentare e costruire qualcosa che rimanga oltre l’immediato futuro, per le generazioni avvenire. La conseguenza naturale di questo atteggiamento è già abbastanza evidente: l’esodo dei giovani italiani in Australia, in America e nel Nord Europa, un fenomeno sociale di portata eccezionale, su cui ora non mi voglio soffermare.
D’altra parte, questi cattivi maestri, che si riempiono ancora la bocca in nome dei giovani, per occupare qualche sala, od ottenere un facile consenso, sono dunque responsabili del vuoto generazionale, e dell’attuale degrado morale e culturale del nostro paese. Siamo pertanto in dovere di presidiare gli ultimi luoghi di fruizione della cultura e della libertà di pensiero, tanto più che, solo esercitandola, sarebbe possibile rimediare a quei danni scellerati, creati in passato. Lei, Sindaco, nel suo piccolo, ha l’occasione di rimediare, di assicurare ai ragazzi di Orvieto, e del comprensorio, – che spesso hanno solo un bar nei loro paesi -, la capacità di pensare, e di rappresentare un futuro diverso da questo nulla in cui sono immersi.
Infine, non alluderò alla storia illustre di questa città, e dei suoi grandi filosofi, come Tommaso d’Aquino, o Bonaventura da Bagnoregio, che sono stati, e continuano ad essere, i miei più grandi maestri. È solo che, da giovane filosofo, non posso rendermi colpevole di rimanere in silenzio, di
fronte all’ennesimo tradimento dello studio, e della sua sacrosanta coltivazione.
Cordiali Saluti,
Vanni Claves,
classe 1994
Liceo Classico F. A. Gualterio