Il nostro dovere di essere nazione credibile, sia per noi stessi (orgoglio), sia per gli altri (stima)
di Franco Raimondo Barbabella
Intervistato da La Stampa lo scorso mercoledi 22, il presidente dell’ANAC Raffaele Cantone, alla domanda su quale può essere la lezione che viene dalla tragedia di Genova, risponde così: «Il sistema Paese è inadeguato: nessuno controlla e ci si affida al fato, salvo scatenarsi, dopo una tragedia, in un’inammissibile fuga dalle responsabilità. È sconvolgente». L’intervista poi così continua: Serve un piano di manutenzione delle opere pubbliche? «La manutenzione fa notizia solo dopo le tragedie. Passata l’emozione, si preferiscono i tagli di nastri». Si dice: le responsabilità sono dei concessionari … «Nel crollo ci sono responsabilità omissive. Chi aveva l’obbligo di intervenire per evitare l’evento? Il concessionario, certo. E nessun altro? Effettivamente gran parte dei poteri è stata delegata al concessionario, ma non vuol dire che l’autorità pubblica può disinteressarsi dei controlli». «Lo Stato, non dimentichiamolo, resta proprietario delle infrastrutture anche se le dà in gestione. E’ inammissibile che abdichi alle sue responsabilità, delegando ai privati».
Certo, quello che dice Cantone non è oro colato, ma a me le sue sembrano considerazioni di buon senso, frutto di quella razionalità, oggi purtroppo rara, che non solo consente di fare analisi e di prospettare soluzioni ma indica anche una strutturazione etica delle responsabilità pubbliche. È comunque un atteggiamento lontano dal clima di rissa che gli esponenti principali del governo hanno alimentato subito dopo il crollo del ponte e a tragedia ancora in svolgimento, preoccupati solo di acquisire consenso e lontani mille miglia dall’essere garanzia per tutti.
Emergono con chiarezza quattro concetti: nessuno controlla; la manutenzione fa notizia solo dopo le tragedie; c’è una fuga dalle responsabilità; lo Stato non può delegare le sue responsabilità ai privati. Sono concetti che si tengono in una catena di coerenza che in fondo indica non le cause momentanee delle tragedie, ma la logica stessa che ne sta a fondamento. Facciamone una piccola analisi.
È evidente a tutti che, se i fenomeni naturali non sono tutti prevedibili (ad es. i terremoti), lo sono però le opere umane (costruzioni antisismiche, urbanizzazioni in zone non esondabili, piani antinquinamento, attività produttive sostenibili, piani di evacuazione, ecc. ecc.) per cui, se non si fanno come si deve, non ce la possiamo prendere con la natura ma con la nostra imprevidenza. Vedi da ultimo la tragedia del Pollino.
Questo vale in particolare per le infrastrutture, grandi o piccole che siano. Il crollo del ponte Morandi si poteva e si doveva evitare. C’è poco da fare, molti ne portano la responsabilità: chi non ha fatto manutenzione; chi ha ostacolato la costruzione della Gronda di Ponente, l’alternativa che avrebbe consentito agevolmente la chiusura del ponte; chi non ha fatto i doverosi controlli nonostante la delega ai privati; chi non ha chiuso comunque il ponte dopo le varie e autorevoli segnalazioni tecniche del grave degrado strutturale. La vita delle persone deve venire prima di tutto, il resto sono inutili chiacchiere e danni.
I quattro concetti che emergono dall’intervista di Cantone indicano dunque lo stato del nostro Paese.
1. Non c’è né un sistema né una cultura del beneficio dei controlli rigorosi. Carenze di personale, carenze di preparazione, menefreghismo, fastidio di chi li subisce, comportamenti che lasciano a desiderare da parte di chi per caso li fa, ecc.
2. La manutenzione da decenni è una variabile dipendente da tutto, perfino dagli umori di chi s’alza la mattina. Ho sperimentato personalmente che già anni fa era diventata un’impresa far cambiare ad un ente pubblico un vetro o riparare una porta. E tutti possiamo constatare come sono ridotte le strade e tante altre cose, pubbliche e private. Non parliamo poi della manutenzione immateriale, ad esempio quella delle leggi o della cultura operativa o addirittura dei modi di pensare e di agire;
3. La fuga dalle responsabilità è forse lo sport nazionale più praticato, e fa pendant con la mancanza di controlli sull’esercizio dei compiti affidati e sull’assenza di un sistema di manutenzioni a fini di efficienza e di sicurezza.
4. La delega ai privati abdicando alle proprie responsabilità è perciò nel sistema pubblico insieme l’origine e la conseguenza di tutto ciò.Ma lo Stato vuol dire potere pubblico in tutte le sue articolazioni, dunque sia potere centrale che potere periferico, ministeri, agenzie, comuni, regioni, e ancora: prefetture, magistratura, fino al singolo cittadino che si fa Stato (si, Stato con la S maiuscola) quando si preoccupa di fare il suo normale dovere di cittadino e quando si carica della responsabilità di denunciare ciò che non va o di proporre ciò che gli sembra utile per la comunità nella quale vive. Certo, punto di crisi è che non si sa quasi mai chi porta la diretta responsabilità di qualcosa. E però si vede, se si vuol vedere, se e quando un potere pubblico abdica alle sue responsabilità. In particolare a livello locale, dove le cose possono essere meglio conosciute. In tal caso non si deve tacere, seppure sempre in modo costruttivo.
Siamo dunque di fronte allo squadernamento di un colossale problema di riforme strutturali dell’organizzazione dello Stato e della vita pubblica della nazione. Questa è la verità. Il problema non è se l’attuale classe dirigente ce la potrà fare (io ne dubito, ma questo è del tutto secondario). Il problema è se il corpo vivo della nazione avrà la forza di superare lo stress test cui la realtà lo sta sottoponendo, adeguando sia la classe dirigente sia i comportamenti diffusi alla necessità di essere un Paese credibile per se stesso e per gli obblighi che gli derivano dal dovere (se non anche dal piacere) di vivere con dignità insieme agli altri, in Europa e nel mondo. Questa è la dimensione del nostro dovere di essere nazione oggi. Tutto il resto vale meno di nulla.
L’opinione di Leoni
Gli sfoghi, le accuse e le minacce, dopo la grande tragedia che ha coperto di vergogna tutta la nazione, risentono delle emozioni tipiche dei funerali di vittime innocenti.
Una forte emozione è la rabbia contro chi si arricchisce smodatamente esercitando un monopolio ottenuto in modo opaco, perché ciò che fa la politica non è mai limpido, così come le leggi non son mai limpide; e nemmeno la magistratura cui appartiene il dottor Cantone.
Quanto alle responsabilità della tragedia, siamo tutti responsabili, perché nessuno di coloro che hanno affidato la gestione del ponte e non hanno controllato, sta lì per diritto ereditario, ma perché eletto, o lasciato eleggere, dal popolo sovrano.
I vizi degli Italiani, che ne offuscano i pregi, sono tanti, e quello della costruzione e gestione delle opere pubbliche è uno dei principali. Leo Longanesi sintetizzò quel vizio così: “Gli Italiani preferiscono le inaugurazioni alle manutenzioni”.
Anche chi circola solo nelle strade locali ne constata la pessima manutenzione che danneggia gli automezzi e provoca incidenti anche mortali. Ma questo stato di cose suscita lagne e non proteste. Vediamo giovani impegnati contro la TAV, la TAP e altre sigle che indicano tentativi di adeguamento dell’Italia al moderno contesto internazionale. Non c’è un cane che si presenti con un cartello davanti al palazzo comunale per protestare perché la strada dell’Arcone è messa peggio delle strade greche, e per chiedere dove vanno esattamente a finire i soldi delle nostre tasse. Il fatto è che sono troppi coloro che non pagano le tasse e che in municipio ci vanno solo per chiedere favori. Ci riprenderemo, certo. Sboccerà una nuova classe dirigente, ma se la pianta è questa dovremo aspettare un bel po’ di tempo.
La democrazia antipatica
di Pier Luigi Leoni
Che gli esseri umani si assomiglino è evidente, altrimenti non sarebbero considerati appartenenti alla stessa specie. Anzi, se si trovano in Italia, hanno anche “pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3 della costituzione italiana).
Ma resta il fatto che ogni individuo si distingue dagli altri non solo per l’iride, le impronte digitali ecc., ma anche per la cosiddetta personalità, cioè per il risultato del temperamento (iscritto nel DNA), del carattere (dovuto a come il temperamento ha reagito all’ambiente) e delle scelte individuali (sempre che si sia dotati della cosiddetta capacità d’intendere e di volere). Fin qui siamo nell’ovvio.
Però spesso non ci si rassegna al fatto che gli esseri umani sono diversi. Non si può negare che esistano uomini d’azione, ai quali piace fare e comandare, dare un’aggiustata al mondo secondo le proprie visioni. Ed esistono uomini d’inazione, ai quali piace godere pigramente del loro tenore di vita. Poi esiste la massa di coloro che non sanno bene che cosa vogliono e vengono sballottati di qua e di là.
Sia gli uomini d’azione che quelli d’inazione sono infastiditi dal quel buffo ma essenziale aspetto della democrazia che è il suffragio universale, i cui effetti non rispecchiano mai i loro interessi. Essi vorrebbero sia l’ordine che la libertà.
Ma la democrazia, come tutte le creazioni umane, è imperfetta e, in alcuni momenti, manifesta fortemente le sue imperfezioni. A volte in modo esiziale. Nell’epoca in cui stiamo vivendo, la democrazia italiana sta rivelando tutti i suoi limiti: incapacità di sradicare le mafie, di ridurre drasticamente la corruzione, di affrontare il fenomeno ineludibile dell’informazione planetaria e dell’economia globalizzata, peggio di come riescono a fare anche Paesi non democratici come la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica socialista del Vietnam.Perché allora sia gli uomini d’azione che quelli d’inazione, sebbene scontenti, sebbene disgustati dai risultati elettorali, non si organizzano per buttare all’aria la democrazia, trovare qualche prefetto Mori che liquidi le mafie mettendo al muro qualche migliaio di irriducibili criminali, mandando ai lavori forzati i corrotti, prendendo a calci nel sedere i burocrati e i giudici fannulloni, censurando il bla bla bla di giornali e televisioni, trascinando fuori dagli uffici poliziotti e carabinieri e mandando l’esercito a presidiare le strade?
Tutto questo non succede, a parte qualche inutile saluto col pugno chiuso e qualche ancora più inutile saluto romano, perché la coscienza collettiva, o meglio la cultura diffusa, ha acquisito un modello ideale di democrazia che s’è insediato nella stragrande maggioranza delle menti. È come l’idea positiva della famiglia ideale che tiene bene o male appiccicata la società, nonostante il dilagare delle unioni di fatto, delle separazioni e dei divorzi. Un modello a cui si è tanto affezionati da volerlo estendere a chi ha gusti sessuali un tempo ritenuti per lo meno eccentrici.
Di fronte alle delusioni della democrazia ci salva il modello ideale che ci consola e ci fa sperare nel futuro. Ma, attenzione, il modello ideale della famiglia risale, dicono, al pleistocene; il modello ideale della democrazia (quella senza schiavi, non quella greca) risale a molto poco tempo fa. E gli esseri umani sono talmente abili, liberi e presuntuosi da inventare il progresso, ma anche il regresso.
L’opinione di Barbabella
La tesi che Pier espone nel suo elzeviro di questa settimana è che la democrazia, cosa imperfetta come tutte le cose umane, dimostra in Italia nell’attuale frangente storico tutti i suoi limiti, e se il popolo, che ne subisce le conseguenze, non si solleva e la butta all’aria è perché nella testa dei più resiste, come per la famiglia, un suo modello ideale. Però non si sa fino a quando, per cui, come c’è progresso, ci può essere anche regresso. È una tesi che, con qualche differenza, si può condividere.
Il mio punto di vista, l’approccio che preferisco al tema della crisi della democrazia contemporanea, è che, essendo tutta la realtà storia, anche la democrazia cambia perché la storia è cambiamento e il cambiamento mette in gioco le nostre individuali e collettive responsabilità. Frotte di studiosi cercano di capire come i sistemi politici sono cambiati nel tempo nel tentativo di definire il migliore modello di governo per il benessere umano, e ovviamente non ci riescono, né possono, perché non può esistere un modello perfetto, un modello che non cambia. Tentò di farlo Platone, assillato dalla constatazione che lo stato che allora sembrava il migliore, la democrazia ateniese, aveva condannato a morte l’uomo più giusto, il suo maestro Socrate. E Platone dovette accorgersi a sue spese (nel terzo viaggio rischiò la vita) che il tentativo di convincere il tiranno Dionigi di instaurare il suo modello ideale di governo non poteva che fallire se affidato alla volontà di un uomo. Ma forse soprattutto perché fondato sulla presunzione del modello perfetto.
Appunto, le cose hanno una storia, e tutto funziona se è una conquista. La democrazia moderna è una dura conquista. Alle sue spalle c’è l’abbandono delle formazioni universalistiche medievali, la fine delle monarchie assolute, l’avanzare della borghesia, l’affermazione della nazione come soggetto storico e la costruzione dello stato liberale. C’è anche la scoperta della centralità dell’individuo, l’affermazione delle idee di libertà e di uguaglianza dei diritti, fino alla legge uguale per tutti e alla convinzione dell’appartenenza ad una comune umanità.
Conquiste dunque, senza di cui la democrazia è niente. Essa si è affermata e consolidata laddove gli uomini hanno combattuto ed hanno fatto duri sacrifici per ottenerla. La controprova è data dal fatto che, laddove invece si è tentato di esportarla con gli eserciti, lì è miseramente e rapidamente fallita. I popoli le loro condizioni di vita, e di governo, se le devono conquistare. La storia non fa regali.
Tirando le somme, mi pare chiaro che se gli italiani non sono affezionati alla democrazia pure conquistata con duri sacrifici dai nostri padri, la vedranno deperire, peraltro molto più rapidamente di quanto non ci sia voluto per ottenerla, come appunto mi pare stia avvenendo. Che cosa ci sarà dopo?. Nessuno può fare previsioni. L’unica cosa che sensatamente si può dire è che il regresso è la cosa più facile.
È logico, siamo ognuno differente dagli altri, ma le formazioni politiche e le istituzioni esistono solo se ci sono legami sentiti come essenziali e spetta ad ognuno impegnarsi perché così sia. Il mondo offre una notevole varietà di sistemi sia storici che attuali. La democrazia tra tutti è il sistema più delicato e più impegnativo perché richiede ad ogni cittadino una buona dose di responsabilità, dalla quale normalmente si tende a fuggire. “Escape from freedom”, Fuga dalla libertà, scrisse nel 1941 Erich Fromm di fronte al successo, e ai drammi, dei regimi fascisti.
Siamo di nuovo alla fuga dalla libertà e dunque alla paura di esercitarla, per cui tendiamo ad affidarci a qualcuno che sembra darci sicurezza? Può darsi, ma sarà bene che chi ha una capacità di pensiero la eserciti, perché la democrazia nella sua forma di democrazia rappresentativa ha tanti difetti (e ci mancherebbe, la storia mica ce la troviamo bell’e confezionata da qualche parte!) ma ha anche un gran pregio che altri sistemi conosciuti non hanno, la capacità di autocorreggersi. Certo, non si può avere insieme la botte piena e la moglie ubriaca, ma se la moglie riesce a limitarsi nel gusto di bere il buon vino, magari non avrà la botte piena, però potrà continuare a bere finché non riempirà di nuovo la botte.
Fuor di metafora, la libertà può benissimo conciliarsi con il bisogno di una società ordinata, e ci sono molti esempi che ne dimostrano la possibilità. La questione è che la conciliazione delle esigenze diverse è un esercizio, non una situazione di equilibrio data e di per sé garantita. Ancora un volta, una consapevolezza, uno studio, una continua verifica, un impegno. Difficile, però non impossibile. I regimi attualmente esistenti nel mondo non mi pare siano il regno di Bengodi. Forse impegnarsi per mantenere vivo il nostro, aggiornandolo, adeguandolo, cambiandolo in direzione di quel modello che ci sta in testa, è la cosa migliore che possiamo sensatamente fare.
Sold out al Teatro Mancinelli per lo spettacolo di Chiara Francini
ORVIETO – E’ un Teatro Mancinelli sold out quello che attende Chiara Francini domenica 17 novembre alle 18 a Orvieto....