A differenza di De Rita, non credo che ci salverà il buonismo
di Franco Raimondo Barbabella
franco.raimonbar@gmail.comLa sociologia, si sa, ragiona per modelli, tipi umani, mentalità collettiva, caratteri dei popoli. Così Giuseppe De Rita, il noto sociologo fondatore del CENSIS, mercoledi scorso sul Corriere della sera si chiedeva se per caso le tensioni legate alle vicende migratorie abbiano avuto l’effetto di cambiare la mentalità collettiva degli italiani, quella che ci fa autodefinire “italiani brava gente” (ricordate il famoso film di Giuseppe De Santis sulla Campagna italiana di Russia, con il grande Raffaele Pisu?) e autoconsiderare aperti e generosi verso gli altri. Quella, dice De Rita, che descrive bene Manzoni nei Promessi Sposi.
Ecco come De Rita pone il problema: “Viene facile il porsi alcune domande: ci siamo incattiviti, vittime di un soggettivismo etico che è stato definito egolatrico («prima gli italiani»)? Oppure manteniamo quel carattere bonario e accomodante che ci ha fatto compagnia per secoli? A ottanta anni dalla fine dell’avventura fascista, stiamo vivendo la tentazione muscolare di mescolare sovranismo e primato dell’identità nazionale? Oppure siamo ancora quella «società benevolente» che si legge in filigrana nella struttura dei Promessi Sposi?”. Insomma, stiamo abbandonando il nostro tratto buonista per sposare quello cattivista che in diversi momenti della nostra storia, come ad un certo punto riconosce lo stesso De Rita, ci ha trascinato verso pericolose e drammatiche avventure?
La conclusione del sociologo è che, siccome “le fughe in avanti verso traguardi di maggiore gloria hanno coinciso con bassi livelli di democrazia, non sarebbe allora male, per evitare di incattivirci, confermare la nostra storia passata e la costante combinazione fra pienezza democratica e identità di semplici uomini”.
Posizione encomiabile ma, con tutto il rispetto, troppo astratta. In realtà ci siamo già sufficientemente incattiviti. Buonismo e cattivismo (parole con consistenza esclusivamente evocativa), con tutte le loro sfumature e contaminazioni, continueranno in diverse dosi a convivere lungo il tempo, ma ho tanto l’impressione che in questa fase della nostra storia, dentro la storia più grande dell’Europa e del mondo, il timbro lo diano due aspetti del comportamento umano che in Italia hanno tuttavia le loro specificità. Si tratta da una parte della propensione all’opportunismo (si sale volentieri sul carro del vincitore o del potente di turno o di chi si ritiene possa esserlo, per trarne un qualche vantaggio) e dall’altra dell’esasperazione dell’individualismo (da non confondere con la valorizzazione dell’individuo – diritti e doveri, libertà e responsabilità, ecc. – che è il carattere della modernità), esasperazione che l’allentamento dei freni inibitori tradizionali, il bisogno narcisistico di manifestarsi al mondo senza troppi sacrifici e la facile complicità delle tecnologie di comunicazione hanno enormemente facilitato.
Ho parlato più di una volta ormai, per questo processo di trasformazione, di una storia lunga con responsabilità multiple e protagonisti diversi. Oggi si raccoglie il frutto della semina. Il populismo non è un fungo sbocciato dopo una pioggia di fine estate. Il sovranismo non è la pura e improvvisa ripresa del ben noto nazionalismo patriottardo (sul concetto di patria – origini, ruolo, trasformazioni – mi permetto di suggerire, soprattutto a chi continua a confondere le cose o per ignoranza o per malafede, qualche buona lettura, tipo “Italia. L’invenzione della patria” di Fabio Finotti, Edizioni Bombiani). Soprattutto, l’intersezione tra populismo apparentemente a-ideologico e il sovranismo apparentemente antistatalista e però insieme nazionalista costituisce una miscela in parte preparata e in parte spontanea che si va cementando sotto la spinta di interessi fortissimi di natura sia ideologica che economica e politica e di dimensione sovranazionale. Cose di questo tipo non si contrastano con le prediche.
Alla luce di tutto ciò l’interpretazione di De Rita mi pare perciò che non possa reggere. Anche perché il ritorno al “buonismo manzoniano”, mentre di fronte alle volgari grettezze di governanti trucidi può far bene individualmente per accarezzare l’anima, non ci fornisce nessuno strumento serio per fermare quella che, con una parte oggi minoritaria del popolo, considero una deriva. Per fermare questa deriva, o almeno per provarci, ci vuole dunque ben altro.
Qualche segnale di reazione di un qualche spessore sparso qua e là in realtà si vede. Ma il danno è fatto, e ci vorrà un lungo lavoro e un lungo cammino per ricostruire il senso di essere un popolo che assume come sua missione non smontare ciò che con l’avanzare dei secoli e alla prova della realtà è diventato una conquista, ma al contrario fornire un contributo ad un ulteriore sviluppo della storia propria e del mondo. Seppure sembri, ecco il segnale, che sia in corso una presa di coscienza che le scadenze che incombono richiedano di scrollarsi di dosso il torpore in cui troppi per troppo tempo si sono accomodati.
La storia è dialettica e così, siccome ad azione corrisponde sempre una reazione, vediamo se questo popolo che sembra oggi aver scoperto l’emozione del confronto muscolare saprà contrapporre muscolo a muscolo (per carità, intellettuale e politico) per ridare sangue e cervello alla democrazia, e con ciò la funzione di progresso che storicamente ha rappresentato laddove, come da noi, è stata conquistata con lotta e sacrificio. Vedremo.
L’opinione di Leoni
La sociologia, come la filosofia e come tutto ciò che pensiamo e diciamo, si serve del linguaggio. E il linguaggio è uno strumento impreciso e pieno d’insidie. Una delle insidie è far supporre che ciò che è espresso con un termine unico sia veramente unico. Così discettiamo di umanità o di nazione o di classe sociale o magari di città di Orvieto, come se questi termini non esprimessero astrazioni di realtà formate da miliardi o milioni o migliaia di individui ciascuno ineluttabilmente diverso dagli altri. È per questo che le discussioni di carattere sociologico sono faticose e disarmanti.
Quando il sociologo parla di italiani non può prescindere da ciò che hanno detto altri né dai propri sentimenti e ha presenti italiani in carne e ossa che conosce e che ammira o detesta. Così quando diciamo che gli orvietani sono pettegoli abbiamo in mente la nostra vicina di casa linguacciuta o il nostro amico curiosissimo dei fatti e, soprattutto, dei misfatti altrui. È per questo, a mio avviso, che la sociologia è affine al pettegolezzo, anche se è molto meno piacevole.
Ma se esiste, da che mondo è mondo, il pettegolezzo, ed esiste, da un secolo e mezzo, la sociologia, qualche motivo ci deve essere. Forse è il bisogno di sentirsi migliori dei nostri compatrioti e dei nostri concittadini. Forse è la paura che il contesto in cui viviamo stia peggiorando. Forse è il senso di colpa di non fare abbastanza per la nostra società. Forse è la maledetta incapacità di essere felici. Constatava amaramente Pascal: “Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”.Perché il comunismo cinese va avanti e la democrazia italiana va indietro?
di Pier Luigi Leoni
postaleoni@gmail.comForse la stragrande maggioranza degli italiani si sono abituati alla democrazia tanto da considerarla normale. La maggior parte di essi, negli anni Trenta del secolo scorso, pensavano che una bella dittatura fascista fosse quello che ci voleva per mettere a cuccia la mafia, eliminare la massoneria, garantire l’ordine, aumentare le scuole, bonificare le paludi, mandare i bambini poveri al mare, estendere le colonie per dirottare l’emigrazione verso territori gestiti dall’Italia. All’incirca così stavano le cose nella Spagna e nel Portogallo, dove si parlano le lingue più simili all’italiano.
Poi le cose (in Italia, non in Spagna e in Portogallo) andarono come andarono e una risicata maggioranza, con una buona spinta del clero, si convertì alla democrazia occidentale, mentre una forte minoranza s’invaghì della dittatura comunista e una debole minoranza rimase fedele, per la suggestione della nostalgia, alla sepolta dittatura fascista. In seguito i comunisti, in gran parte, si occidentalizzarono, sia per essersi affezionati al gusto della libertà, sia perché, nella democrazia, erano esplosi il benessere e la generosità dello Stato assistenziale e clientelare, sia perché l’impero sovietico e i sui satelliti erano entrati in coma. Più tenaci i nostalgici del fascismo che riuscivano in buona parte a trasmettere ai figli il culto del decantato regime, che ritenevano crollato solo per colpa dei traditori della Patria.Siamo arrivati all’oggi, quando il più numeroso popolo del mondo, quello cinese, senza rinnegare il regime comunista, si sviluppa economicamente a grandi passi. È arrivato a far paura agli Stati Uniti d’America e si sta infiltrando in Europa e in Africa. I cinesi non salgono sui barconi e sui gommoni, ma viaggiano regolarmente, sfruttando i buchi delle leggi sull’immigrazione, e comprano, producono e vendono. Si fidano poco della mano d’opera europea e ancor meno di quella africana, perciò instaurano aziende con mano d’opera cinese, che ha una attitudine al lavoro molto superiore a quella europea e nemmeno paragonabile a quella africana.
Mi metto nei panni dei nostri intellettuali, che sono figli di una nazione che non ha inventato né la democrazia antica né quella moderna, e che si è rimangiata in un secolo e mezzo, con le signorie, quelle caserecce libertà comunali che si erano formate nell’Italia centro-settentrionale. Essi si trovano di fronte alla nostra democrazia che langue mentre il comunismo cinese prospera.
Mi diverto un po’ leggendo gli arzigogoli con cui cercano di affrontare o, più spesso, di evitare il problema. Che è un problema di filosofia politica e non un tema da bar dello sport.
L’opinione di Barbabella
La questione che pone Pier naturalmente è di grande interesse, ma devo invocare subito la sua benevolenza perché difficilmente riuscirò a dire cose di un qualche rilievo. D’altronde lui stesso nota come siano i nostri intellettuali ad annaspare, e dunque come potrei cavarmela meglio io? Provo comunque a dire qualcosa.
Il tema è di quelli che impegnano: perché la democrazia in Italia deperisce e il regime comunista in Cina prospera? Ed è, dice Pier, “un problema di filosofia politica e non un tema da bar dello sport”. Certo è così, ma allora – ecco la prima riflessione – bisogna porre la questione in altro modo, giacché una cosa è analizzare perché la Cina va avanti e l’Italia va indietro e cosa non identica è chiedersi se è il comunismo che fa andare avanti la Cina e al contrario è la democrazia che fa andare indietro l’Italia. Con il che nasce una miriade di sottoproblemi sui quali in questa sede si deve per forza di cose sorvolare. Comunque io non sono convinto né dell’una né dell’altra cosa. Mi spiego.
Il comunismo cinese è diventato nel tempo una forma particolare di sistema politico, quello che concordemente gli analisti definiscono comunismo capitalista, un ircocervo che nella realtà è un regime che ha analogie con altre forme di potere autoritario di successo. D’altronde era stato per primo lo stesso Lenin che, dopo i disastri dell’economia di guerra, con la NEP aveva favorito lo sviluppo nella Russia bolscevica del “capitalismo di stato”, ed era stato Bucharin che dopo la morte di Lenin aveva sostenuto, in continuità con la NEP e in contrasto con Trockij, che si dovesse dire ai contadini: “arricchitevi, accumulate, sviluppate le vostre aziende. Soltanto degli idioti possono dire che da noi deve sempre esserci povertà”.
La Cina ha perfezionato la formula di Lenin e quella di Bucharin, ma soprattutto a partire dagli anni ottanta ha riscoperto, contro i drammi del maoismo, la tradizione confuciana: prima Deng Xiaoping ne ha sposato il pragmatismo con la “filosofia del cacciatore di topi” (non importa il colore del gatto, importa che acchiappi i topi); poi in tempi più recenti l’attuale Presidente Xi Jinping ne ha fatto proprio il concetto più importante, quello di armonia (dunque il senso di comunità, con tutto ciò che significa in concreto), in chiara contrapposizione con l’idea e con la pratica della lotta di classe. Cosicché oggi la Cina è governata da 2000 dirigenti di un unico partito selezionati con criteri rigidamente meritocratici. Dunque via l’idea di determinismo storico, via il concetto di lotta di classe, via la concezione negativa dell’imprenditoria e del mercato. Avanti con lo sviluppo e l’iniziativa privata, la differenziazione dei redditi, la modificazione del costume, l’idea stessa di successo. Ma tutto sotto il rigido controllo del partito unico. Per ora funziona. Poi si vedrà. Perché ciò che resta chiaro, in dittature come questa e come in altre analoghe, è che si può essere efficienti ma non liberi, nepotismo e corruzione possono convivere con un moralismo spinto, privilegi più o meno piccoli possono prosperare sotto la fitta coltre di una formale uguaglianza, soprattutto la correzione degli errori non è mai semplice in quanto non contemplata dai meccanismi del sistema e ci vuole sempre un atto autoritativo per cambiare qualcosa.
Ora l’Italia. Non ripeto qui ancora una volta le mie convinzioni sul declino italiano, che non coincidono esattamente con la crisi della democrazia nei paesi sviluppati, tema su cui si esercitano eserciti di analisti senza tuttavia che si trovi il bandolo della matassa. Azzardo un’ipotesi: mentre in regimi come quello cinese in fondo è abbastanza semplice selezionare le classi dirigenti con criteri meritocratici, nei sistemi democratici questo è molto difficile. Il successo dei politici in genere dipende infatti dalle capacità demagogiche più che da studio, preparazione e competenza. È per questo che ci si illude di risolvere il problema mediante la legge elettorale, che alla fine si rivela sempre e necessariamente un inganno perché non è quella la soluzione. In Italia poi tutto si ingarbuglia per frammentazione, clientelismo e intrico di interessi, che alimentano il furbismo individualistico più che la responsabilità collettiva.
Concludo e riassumo. Se la Cina nella prima fase posteriore alla rivoluzione maoista ha fatto uscire dalla condizione di fame oltre 200 milioni di persone, si deve certamente alla dittatura comunista che ha imposto trasformazioni economiche e sociali a tappe forzate. Ma poi il salto dagli anni ottanta in qua è dovuto alla sapienza di chi ha saputo riscoprire la forza della millenaria tradizione della filosofia confuciana. Ne è nata una formula politica che con orgoglio Xi Jinping si chiede perché non dovrebbe essere più attraente di quella con cui Trump governa oggi l’America. La competizione è aperta. Vedremo come si svilupperà.
La democrazia italiana conosce da un pezzo una crisi da cui non si riesce a venir fuori in avanti. È insieme crisi politica e istituzionale. Si è parlato, a mio avviso solo per comodità giornalistica, di prima, seconda, e ora di terza Repubblica. Sciocchezze. La verità è che, questa è la mia convinzione, non si è risolto il problema della selezione delle classi dirigenti. Dopo quella dei padri fondatori, l’Italia non ha conosciuto più una fase in cui la competizione politica vedesse impegnati, non solo al vertice ma diffusi nel corpo della nazione, personaggi di rilievo dotati di spessore intellettuale e morale universalmente riconosciuto. Ci sono state eccezioni, e l’elenco non sarebbe nemmeno così corto come si può pensare, ma non hanno fatto sistema. Chi ha provato a cambiare dando nuovo fiato alle istituzioni con innovazioni serie e sensate è stato fatto fuori senza troppi complimenti. E oggi siamo arrivati all’esplicito tentativo di smontaggio della democrazia rappresentativa e alle regole soggettive, il classico stupidissimo tentativo di buttar via con l’acqua sporca anche il bambino.
Il sistema democratico è quello che ha consentito all’Italia di essere tra i Paesi più sviluppati del mondo e ai suoi cittadini di godere di diritti di libertà e di garanzie sociali che fino alla Repubblica per molti milioni erano semplicemente un miraggio. Oggi pare che di questo si deve fare tabula rasa. L’estremismo è una malattia mortale e l’Italia ne può morire. Ma il sistema democratico è anche tale da consentire una reazione. Anche per l’Italia dunque per il momento dobbiamo dire vedremo.
Non scambiamo dunque le lucciole per lanterne: la democrazia può scivolare verso la dittatura ma può anche autoriformarsi e diventare una democrazia migliore; la dittatura, se vuole migliorare, deve per forza andare verso un’attenuazione delle sue caratteristiche illiberali e dunque verso una qualche forma di democrazia. Non scambierei la peggiore democrazia con la migliore dittatura in base alla constatazione delle percentuali di crescita del PIL. Nel giudizio contano altre cose: la storia, le dimensioni, il contesto presente, le radici, l’idea di futuro e tanto altro.
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