Gli strascichi della mezzadria in Orvieto
di Pier Luigi LeoniMi ha sempre appassionato la lettura dei saggi storici che cercano di scoprire il senso degli avvenimenti umani. Ma il senso che gli storici dicono di aver scoperto è ambiguo e infatti è preso per buono da storici minori che non hanno stoffa, o contestato da altri che ambiscono a farsi la fama di maestri. Ripugna agli esseri umani rassegnarsi al fatto che ognuno è diverso dagli altri e che il collocamento dei comportamenti in immaginarie caselle è destinato a dare illusorie certezze. È la sorte dell’“Uomo di Popper”, che si trova in una stanza buia e cerca un cappello nero che forse non c’è.
Una ventina di anni fa scrissi un pamphlet storico-politico intitolato “Orvieto kaputt – La Vendetta del Villano”. Favorito dalla mia provenienza da un mondo di coltivatori diretti, mi soprese e m’incuriosì la realtà mezzadrile orvietana. Studiai la storia della mezzadria e il diritto agrario all’università. Instaurai rapporti amichevoli con famiglie coloniche.
Mi occupai di gestione di poderi sia direttamente come segretario comunale di Bolsena, sia indirettamente come consigliere di amministrazione dell’Ospedale di Orvieto. Nel mio pamphlet sostenni la tesi che il mondo mezzadrile era una fabbrica di rancore del colono verso il padrone e di razzismo del padrone verso il colono.
Ne dedussi che la fortuna del Partito Comunista Italiano nell’Italia Centrale, Orvieto compresa, era imperniata sul rancore contadino, tanto intenso da trasmettersi ai figli e ai nipoti anche dopo l’abolizione della mezzadria. Il libro ebbe un certo successo, forse perché gli orvietani vi trovarono ciò che intimamente sapevano, ma che nessuno aveva brutalmente scritto. Mi ripromisi di dedicarmi, in un secondo libro, alla debolezza della borghesia orvietana, che si rifletteva nei compromessi col potere rosso, per non parlare della gara con gli ex contadini nel disseminare i sobborghi e le frazioni di costruzioni brutte; o almeno più brutte di quelle che si vedono in altre aree ex mezzadrili come la Toscana e il resto dell’Umbria. Un aspetto appariscente della debolezza della borghesia è la scarsa cura dei fiori negli spazi pubblici e privati. Una città fiorita e abbellita dai colori della natura contrasterebbe con l’avversione per le piante ornamentali che univa padroni e contadini, gelosi della scarsissima terra irrigua alla quale chiedevano ortaggi da mangiare e non piante da ammirare.Non so se riuscirò a scrivere questo secondo libro, perché dovrei fare una difficile ricerca (che preferirei facesse qualche volonteroso laureando) su chi, come e a quali prezzi, creò o incrementò i propri patrimoni agrari negli anni 1866-1867 quando furono messi all’asta i terreni espropriati agli enti religiosi e altri terreni demaniali. Doveva trattarsi di ricchi proprietari, professionisti, commercianti, artigiani e usurai. Costoro incrementarono o crearono i loro poderi arruolando i paria dell’epoca, cioè i nullatenenti senza arte né parte destinati a un penoso bracciantato.
Una ricerca del genere darebbe certezze discutibili e relative. Ma forse spiegherebbe quella penosa carenza di fiori.
L’opinione di Barbabella
Breve digressione introduttiva. I positivisti di metà ottocento (tipo Auguste Comte), espressione della borghesia trionfante, erano convinti che agli scienziati spettasse il governo della realtà giacché evoluzione della conoscenza ed evoluzione della civiltà sono strettamente connesse (Comte riassumeva così: “conoscere per prevedere, prevedere per agire”). Questa fiducia nel potere della conoscenza è stata letteralmente distrutta nel corso del Novecento, nonostante i successi straordinari della scienza in tutti i campi. Tutto infine è diventato relativo e provvisorio, fino alla presunta irrilevanza odierna dei fatti reali rispetto alla percezione, elevata oggi a regina di ogni giudizio e di ogni orientamento. La storia degli storici di professione ovviamente ne ha risentito (il relativismo storico è diventato la norma) seppure non può evitare di far riferimento a fatti e documenti probanti. Fine della premessa.
Da qui la mia convinzione che, se è certamente vero che il sistema della mezzadria ha esercitato in territorio orvietano una lunga e profonda influenza sui rapporti sociali, sulla mentalità dei protagonisti e sulle stesse dinamiche di potere, è anche vero che il tema del rancore del villano non spiega tutto. Ho apprezzato e apprezzo “La vendetta del villano”, tesi intelligente e carica di suggestioni ma che, come dice anche qui il suo autore, va arricchita con altre analisi sulle dinamiche materiali e sugli orientamenti mentali dei proprietari terrieri della zona (difficile parlare di borghesia agraria).
Io direi che andrebbero presi in considerazione elementi come i conflitti di proprietà, la voglia di possesso della roba (alla Malavoglia), ma insieme anche la grettezza degli uni e la grettezza e mezzo degli altri, e in definitiva il conservatorismo spesso spregiudicato e feroce come portato di lungo periodo fino ai nostri giorni. Il tutto ovviamente con le dovute eccezioni.Alla fine non so se capiremo perché abbiamo una “penosa carenza di fiori” (ma siamo così sicuri? Abbiamo anche una tre giorni dedicata proprio ai fiori, con tanto di premiazioni a chi si distingue nella gara ad abbellire con essi il proprio ambiente). Però capiremo forse un po’ meglio perché in questa città chiunque riesce ad avere successo per fare bene il proprio mestiere quasi quasi ha rubato qualcosa a qualcuno. E magari anche il perché della perenne contraddizione tra desiderio di cose meravigliose (sempre a carico di qualcun altro) e critica di chi si muove anche solo per fare cose normali.
Il vero cambiamento
di Franco Raimondo BarbabellaA seguire giornali, telegiornali e social si ha la sensazione di vivere in un Paese affetto da nevrosi multiple. Beato a chi ci capisce qualcosa cosicché possa dire qualcosa di certo su quali sono, almeno a livello di opinione percepita (rendiamo omaggio alla regina di oggi) i problemi più importanti e urgenti e su come ci si sta attrezzando per affrontarli seriamente. Pare che ci sia un’invasione di stranieri e l’immigrazione in un anno è diminuita dell’85%; pare che manchi il lavoro soprattutto per i giovani (e hai voglia se manca!) e il primo atto del Governo in materia si preoccupa di tutto tranne che di creare posti di lavoro; la vaccinazione obbligatoria ha riportato le percentuali di vaccinati ai livelli di sicurezza previsti dagli standard internazionali e il(la) neoministro(a) della sanità annuncia che per andare a scuola basta una semplice autodichiarazione; la scuola soffre di mancanze multiple, in cui spiccano le responsabilità di direzione, l’efficacia delle decisioni, il dovere di rendicontazione, la carriera in base al merito, ecc., e il neoministro dell’istruzione pensa bene di fare come suo primo atto di governo un accordo coi sindacati per eliminare quel piccolo segnale di cambiamento (introdotto dalla legge 107/2015) che era la possibilità della chiamata diretta di alcuni docenti seppure con limiti e limiti; i problemi della giustizia come tutti sanno sono colossali, la lotta alle mafie è tema importante ma delicato, richiede specializzazione, pazienza, dedizione, risorse, se ne occupano i tribunali e c’è da cinquantacinque anni la Commissione Antimafia (senza grandi risultati), ma oggi, nel montante clima giustizialista, sembra ci sia bisogno di una nuova e ulteriore commissione, la Commissione Trame Oscure della Repubblica: pare l’abbia proposta ufficialmente al presidente della Camera Roberto Fico il dott. Antonio Ingroia, e nulla fa dubitare che non si farà. Si potrebbe ancora continuare.
A me però una cosa pare di capirla, ed è che tutto cambia con cambiamenti che al fondo non scalfiscono se non marginalmente le logiche consolidate del paese dei furbi. Insomma, raschia raschia, strilla strilla, alla fine il cambiamento più rilevante pare sia la congiunzione del vecchio gattopardismo (cambiare tutto perché nulla cambi) con la novella demagogia populista (carezzare le pulsioni di pancia del popolo massmediatico con stimoli a raffica da cui trarre vantaggi di consenso da misurare all’istante). Insomma, la politica ridotta a fenomeno secondario di mercato.
Non si salva quasi nessuno. La maggioranza gialloverde (o ormai, dopo Pontida, gialloblu?) ha avuto ed ha successo proprio per questo. Dalle macerie dell’insipienza altrui ha saputo far spuntare la speranza di cambiamenti fantasmagorici che magari non si realizzano, ma almeno hanno creato l’illusione del cambiamento e comunque hanno dato ad un sacco di persone la soddisfazione di dire “era ora, li abbiamo mandati a casa!”. Le minoranze sono sparite o balbettano. Quando si fanno sentire si percepisce che in molti stanno pensando solo a come salvarsi, a quali manovrette mettere in piedi per rimanere abbarbicati a quel poco di potere che ancora sarà disponibile. Pochi, davvero pochi, dimostrano di avere a cuore un sistema democratico funzionante e un futuro che non sia fatto solo di annunci. Pochi sanno ragionare di prospettive.
La spia principe di come stanno le cose? Eccola. Nessuno sembra preoccuparsi di avere un progetto lungimirante di governo, di agire secondo un disegno riconoscibile con al centro in modo incontrovertibile l’interesse comune. Non si capisce dove vuole portare il Paese la maggioranza che lo governa. Non si capisce se da qualche parte delle opposizioni qualcuno stia lavorando perché sorga da lì un progetto di futuro credibile e meritevole di impegno, una alternativa vera, il sale della democrazia.
Ma la cosa grave è che è così un po’ in tutto il Paese, dal centro alla periferia. Lo è nelle regioni, tranne rare eccezioni. Lo è nei comuni, e qui le eccezioni sono ancora più rare, devo dire anche per la lunga politica di depressione attuata dai governi precedenti. E tuttavia è proprio di questo che ha bisogno una società per avere fiducia nelle sue stesse forze.
Questo mi pare dunque oggi il compito di chi voglia fare politica in modo serio: costruire prospettive, creare ragioni di impegno pubblico collettivo. Idee, disegno progettuale, coinvolgimento, speranza di futuro, ecco il cambiamento di cui c’è assoluta necessità.
L’opinione di Leoni
In effetti stiamo attraversando un periodo strano. I politici parlano senza chiedere il permesso al cervello. Quelli al governo fanno finta di non sapere che lo Stato è talmente indebitato che c’è poco da promettere agli elettori. E i debiti si pagano, altrimenti si fallisce, o almeno si finisce in amministrazione controllata. Un viaggetto in Grecia li riporterebbe coi piedi in terra. Un tempo si stampava il denaro e si provocava l’inflazione favorendo i debitori e fregando i creditori. Adesso si fregano i proprietari di seconde e terze case imponendo tasse che le fanno decrescere di prezzo e non tutelando adeguatamente i proprietari dagli affittuari che le sfasciano e non pagano i canoni. Si fregano gli automobilisti, cioè quasi tutti i cittadini, coi prezzi dei carburanti e quelli delle officine che riparano i danni alle auto causati dalle buche stradali. E si fregano tutti i cittadini che non hanno voglia di morire, avviandoli verso la sanità a pagamento. Per non parlare di coloro che non hanno denti per masticare e occhi buoni per vedere. Altro che tassa piatta e reddito di cittadinanza. Chi è spolpato dalle imposte dirette e indirette e dalle tasse sui servizi si rassegni; e si rassegni pure chi spera d’incassare uno stipendiuccio statale oltre alla paghetta dei genitori.
Quanto ai politici dell’opposizione, colpisce la loro tetraggine da pugili suonati. Hanno ancora il coraggio di chiacchierare solo l’ex ministro Calenda e il governatore del Lazio Zingaretti; ma chi li capisce è bravo.
Per fortuna, c’è il presidente della Repubblica, con le sue banalità piene di saggezza meridionale.
Ha da passà a nuttata.
Tardani: “La rinnovata fiducia una responsabilità da condividere per rispondere alle aspettative della città”
ORVIETO –Venerdì 20 dicembre, nella Sala consiliare si è tenuto il consueto incontro tra la Giunta e i...