Che cosa insegnare ai nostri giovani: acquiescenza all’idea di inevitabilità della fine dell’Occidente e dell’Europa o capacità di reazione critica per dare nuova vitalità ai valori fondanti di questa civiltà?
di Franco Raimondo BarbabellaLasciamo stare che in Italia di queste cose non ci si preoccupa, ma il problema esiste: che cosa insegniamo ai nostri figli? e sulla base di quali fondamenti culturali sviluppiamo le strategie del nostro sistema di istruzione e formazione? Non è più il tempo né dei monopoli educativi né della reductio ad unum della varietà dei pensieri né tanto meno della riproposizione di qualche modello di presuntuosa stabilità. È appunto il tempo del contrario di tutto ciò. Ma anche in questo momento della storia in cui tutto si trasforma sotto i nostri occhi, e anzi a maggior ragione proprio in un momento come questo, in una società che voglia restare democratica, converrà chiedersi che cosa vuol dire formare persone libere e responsabili, capaci di visione critica e di relazioni ricche di significato. Avere insomma come risultato ideale il massimo della cura di sé per tutti. E se non c’è stato fino ad oggi perché pensare che non ci potrà essere mai?
In questa sede mi occuperò, e non posso fare altrimenti, del solo punto di partenza di una riflessione altrimenti molto complessa e impegnativa. Si tratta più di una questione di clima educativo che non di programmi e di metodi. In buona sostanza, si dovrà puntare, stando ognuno nel proprio ambito ma avendo ognuno la capacità e la voglia di essere orchestra, sulla trasmissione dell’idea di una crisi irreversibile dell’Occidente e dello sfaldamento dei valori dell’uomo europeo o al contrario sul valore di un impegno per un loro rilancio con chiavi di lettura e di applicazione prive dei meccanicismi e delle stanchezze che ne hanno determinato la crisi? Insomma, liquidazione di una storia o riscoperta dei fondamenti vitali di una storia?
La domanda non è peregrina perché sottintende che se ci si attesta sul primo corno di essa si tenderà inevitabilmente ad accettare la realtà così com’è, sparpagliata, incerta, oscillante come canne al vento. Sarà una prospettiva priva di futuro. Sarà di fatto priva di valori. E tutto sarà possibile, ma solo per pochi in una società arida e fragile. Cioè violenta.
La distanza tra l’inizio della riflessione moderna sui valori della società da costruire e la realtà attuale con tutte le incognite che vi sono connesse si può misurare rapidamente (ovvio, con grande approssimazione) leggendo due articoli, uno su “La Lettura” di domenica 8 luglio e l’altro sul “Corriere della sera” di giovedi 12 luglio.
Nel primo, un confronto tra Donatella Di Cesare e Steven Nadler (autore del recente “La via alla felicità. L’Etica di Spinoza nella cultura del Seicento”), emerge la forza del pensiero di Baruch Spinoza che propone alla cultura europea una scelta radicale imperniata sull’idea dell’“amore intellettuale di Dio”, “quello che non può essere fonte di tristezza, né di sofferenza, ma solo di gioia. Perché è rivolto all’Eterno”. Una prospettiva in cui non c’è posto per i valori incerti perché è quella di un’esistenza interamente dedita alla ragione che sa controllare le passioni e dunque non si perde dietro ai miti, alle ambizioni e alle miserie dell’attimo fuggente. Una prospettiva iniziale che nel corso di oltre due secoli e mezzo è stata progressivamente negata e distrutta.
Nel secondo, un’intervista di Massimo Gaggi al politologo Ian Bremmer, si descrive la crisi che vive oggi l’Occidente. Per aver abbandonato quella prospettiva? Bah, chissà. Inizia così: “L’Occidente vive una crisi profonda per la crescita della disuguaglianze, le migrazioni dal Sud del mondo, lo svuotamento di un ceto medio sempre più proletarizzato”. E poi via con gli esempi di un mondo in cui tutti gli apparati che ne hanno garantito un assetto tutto sommato ordinato, nonostante la proliferazione dei conflitti locali, le tensioni continue e le ingiustizie feroci, si stanno sfaldando sotto i colpi di nuove leadership politiche molto aggressive ed egoiste.
Questa seconda è una delle tante riflessioni. A distanza di cento anni da “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler è tutto un pullulare di prospettive buie per quest’area del mondo che tanto a lungo ha rappresentato la parte più avanzata dell’umanità sia in termini di valori che di benessere materiale e di garanzie democratiche. Buio per l’Occidente e ovviamente buio per l’Europa, i cui governanti e i cui popoli sembrano essere oggi dimentichi del perché per settant’anni hanno potuto godere del più lungo periodo di pace della propria lunga storia.
Credo dunque che ci siano ragioni sufficienti per chiedersi che cosa dobbiamo insegnare oggi ai nostri figli in una temperie storica come questa. E come dobbiamo improntare le nostre strutture educative perché nella diversità dei compiti facciano comunque sistema.
L’opinione di Leoni
Diceva Edmondo De Amicis che “l’educazione d’un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch’egli tien per la strada”. Come tutte le opinioni, non va presa come verità assoluta. Ma credo sia utile come spunto di riflessione. Non c’è bisogno di girare il mondo per sapere che il cielo è azzurro dappertutto. Così bastano il cinema e la televisione per vedere che anche nelle più remote città si sono infiltrarti i costumi occidentali. Lo si vede dall’aspetto dei fabbricati e delle automobili; lo si vede dall’abbigliamento e dagli onnipresenti jeans; lo si vede dalle insegne, che, per il tramite della lingua inglese, utilizzano sempre più l’alfabeto latino; lo si vede dai giovani giapponesi, che sono sempre più alti e con le gambe dritte perché sempre più mangiano all’occidentale. I costumi sono importanti perché dietro ad essi vi sono i modi di pensare.
Certo, è più facile far passare i jeans, il vino e la pizza che raffinatezze come la democrazia; ma anch’essa è sempre più ammirata e scimmiottata, e, a volte, acquisita. Quindi l’Occidente ha successo e i moderni mezzi di comunicazione accelerano il fenomeno. Le reazioni sono dure, ma concentrate in alcune aree geografiche e culturali e osteggiate anche nell’ambito di quelle culture. L’Isis non sarebbe stata pesantemente colpita senza la collaborazione con l’Occidente di correligionari musulmani. Il successo dell’Occidente non può fare a meno di inorgoglirci, anche se non deve impedirci di vedere le magagne della cultura occidentale. E basta un po’ di umiltà per renderci conto del processo osmotico per cui penetrano in Occidente valori postivi da antiche culture. L’attaccamento alla famiglia, agli antenati, ai riti e al lavoro delle comunità cinesi che vivono numerose e discrete in Italia senza mendicare, senza rubare, senza spacciare, senza sfruttare la prostituzione e senza uccidere stanno migliorando noi e altri immigrati che, come troppi italiani, fanno esattamente il contrario. Se non vogliamo che questo millennio sia anche l’ultimo dobbiamo imparare anche dall’Oriente e rassegnarci al fatto che la scienza non basta e che anzi è applicabile anche a tecniche letali. E senza poterci dire niente sul senso di questo granello, come diceva Max Horkheimer, sospeso nell’universo infinito. Un granello con una incrostazione di muffa.Il fascino della democrazia: quando non si possono stampare i soldi, si stampano le chiacchiere
di Pier Luigi Leoni«Uh! com’è difficile restare calmi e indifferenti
mentre tutti intorno fanno rumore.»
Eppure, se riusciamo a metterci nello stato d’animo evocato da Franco Battiato, possiamo provare perfino una certa tenerezza nell’assistere allo spettacolo che stanno dando i nostri governanti e i loro oppositori.
Il presidente del consiglio, pescato tra migliaia di anonimi professori universitari, ha superato presto la sorpresa per una carica che non gli è costata fatica e se la gode sfoderando un eloquio corretto e forbito che marca la distanza culturale dai due vicepresidenti. I due annaspano per dimostrare che comandano e lui sa bene che più chiacchierano e più svelano i loro limiti. Non solo, ma Giuseppe Conte sfoggia abiti di sartoria e sa farsi il nodo della cravatta. Altro segno di distinzione che non può non farli incazzare.
Matteo Salvini ha preso di petto il problema dell’immigrazione irregolare portando avanti con clamore ciò che il taciturno Marco Minniti aveva efficacemente avviato. Parla poco di tassa piatta perché sa che non si può fare, ma anche ben sapendo che non si può fare nemmeno il reddito di cittadinanza caro ai grillini. O meglio, che da quelle grandi promesse potranno uscire solo abortini spacciati per riforme vere.
Luigi Di Maio sembra un pulcino nella stoppa e pigola sempre più piano.
Di fronte a cotanti uomini di Stato si ergono gli oppositori: impacciati come Silvio Berlusconi, angosciato per la sorte delle proprie aziende; petulanti come Giorgia Meloni, che non riesce a far pesare la sua astensione al momento del voto di fiducia al governo; costernati come i democratici, che perdono ogni elezione, comprese quelle nelle assemblee di condominio, perché quei bastardi degli italiani preferiscono adesso la presunta onestà dei grillini alla sputtanata superiorità morale della sinistra.
Ma lo spettacolo più divertente è quello dei giornali e delle televisioni. Quei pochi che simpatizzano per il governo stanno in guardia perché sono sicuri che duri poco e si prodigano in avvertimenti e consigli non richiesti. Gli altri rosicano e puntano sui dissidi veri e presunti tra leghisti e grillini; commentano con cattiveria ogni screzio e cadono in depressione quando i pappagallini gialli e verdi smettono di beccarsi e tornano a farsi le coccole.
Insomma, se riusciamo a sopire in noi gli strascichi emotivi delle ideologie che, in un modo o nell’altro, ci hanno coinvolto, possiamo serenamente prendere atto del fascino della democrazia che fa soffrire sia chi comanda sia chi sta all’opposizione. Specialmente quando i soldi non si possono più stampare e si possono stampare solo le chiacchiere.
L’opinione di Barbabella
Agganciandomi a quanto detto da Pier, mi sembra possa essere calzante la seguente sintesi lapidaria: l’attuale governo dimostra che, se i soldi non fanno virtù, non la fanno nemmeno le chiacchiere. Anzi, la rincorsa alle dichiarazioni che annunciano ora sfracelli ora cambiamenti fantasmagorici sta conferendo nuova forza al principio di realtà, che da tempo sembrava scomparso quale criterio privilegiato di giudizio. Non c’è infatti problema serio che sia anche solo avviato a soluzione.
Anzi, dallo spread ai migranti, dal lavoro alla giustizia, dalla scuola a non so che, ciò che emerge finora dai provvedimenti (anche se pochi) e insieme dalle iniziative e dalle dichiarazioni (che, essendo di esponenti di governo, hanno comunque conseguenze) è un allarme generalizzato non tanto per la messa in discussione di ingiustizie e privilegi quanto per le contraddizioni appunto tra proclami e realtà e di conseguenza per l’incapacità/impossibilità di capire ciò che si vuole, in quale direzione si vuole andare.
Esempi tipici la nullità di risultati sul controllo europeo delle frontiere e l’aumento esponenziale delle tensioni e delle difficoltà oggettive fino ai contrasti tra poteri dello stato con la necessità di intervento del Presidente Mattarella, e le previsioni di distruzione di migliaia e migliaia di posti di lavoro in conseguenza dei provvedimenti prodotti o annunciati da Di Maio sul lavoro, quelli che il lavoro dovrebbero al contrario crearlo. Cosa dire nel contempo sulle opposizioni?
Ha già detto Pier. Aggiungo anche qui lapidariamente: nulla da rilevare. E in più solo questo: come era facile immaginare, nel pd, invece di fare autocritica usando le opportunità offerte dall’esercizio del pensiero (non so, ma qualcuno prima o poi dovrà riscoprire questa facoltà ora nascosta da qualche parte!), ci si sta di nuovo affidando alle pratiche tradizionali più collaudate: da una parte le carezze ai grillini nell’illusione di un aggancio in tempi brevi per operazioni di potere facili, e dall’altra le genialate che indicano solidità di pensiero e visione strategica (sic!) del tipo “compagni, torniamo in mezzo alla gente!”. Che dire di più? Nulla. Mi sia concesso, e me lo concedo: mala tempora …
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