Se l’Unione Europea non provvede a controllare l’immigrazione, gli Stati fanno da soli. Alla faccia del diritto internazionale.
di Pier Luigi Leoni
I buoni samaritani scarseggiano, come aveva avvertito l’Autore della famosa parabola. A meno che non si vogliano spacciare per buoni samaritani gli operatori delle organizzazioni non governative che raccolgono gli africani abbandonati in mare. Ma il buon samaritano aveva soccorso, curato e ricoverato a proprie spese il poveretto che era stato derubato e pestato dai predoni. Non lo aveva scaricato all’albergo più vicino e lasciato lì a vedersela con l’albergatore.
C’era da aspettarselo che l’Italia, dopo avere a lungo dimostrato rispetto per le leggi internazionali, avrebbe reagito: prima andando a mettere le mani nel casino libico (ministro Minniti) e poi suonando la sveglia alle altre nazioni europee (ministro Salvini). E questo benché il nostro Paese abbia bisogno di giovanotti, donne fertili e bambini. Infatti furono benvenute negli anni Novanta del secolo scorso, e regolarizzate nel 2002 (legge Bossi-Fini) le centinaia di migliaia di domestiche e di badanti che erano indispensabili alle famiglie italiane.
Quindi il problema sostanziale non è l’immigrazione e nemmeno l’ipocrita distinzione tra chi ha diritto d’asilo perché fugge dalla guerra e chi non ce l’ha perché fugge dalla miseria. Il fatto è che i movimenti dei popoli sono fisiologici, ma devono essere controllati se si vuole evitare che accada ciò che accadde nelle cosiddette epoche barbariche, quando era solo la violenza a governare stragi, predazioni e distruzione di popoli civili.
Credo che gli italiani siano spaventati dalla violenza dei trafficanti di esseri umani che inoculano nel corpo sociale virus che vanno ad aggravare le malattie di cui già soffre la nostra società: delinquenza organizzata e non, razzismo, caporalato e droga.
Se l’Europa non riuscirà a porvi rimedio, lo faranno, come già hanno cominciato a fare, le singole nazioni. Alla faccia del diritto internazionale, che funziona fino a quando agli Stati conviene farlo funzionare.
L’opinione di Barbabella
Io sull’immigrazione condivido quanto ha detto venerdi scorso Papa Francesco: “Poi ho detto che ogni paese deve fare questo con la virtù del governo che è la prudenza, deve accogliere quanti può, quanti può integrarne, dare lavoro. Questo è il piano tranquillo sui rifugiati”. Perfetto. Magari fosse stato questo l’orientamento prevalente, anche del Papa e della Chiesa, appena il fenomeno si manifestò anni addietro! Ma a lungo non è stato così: il clima era dato dal grido “dobbiamo accoglierli” e sembrava dovessimo accoglierli tutti sennò eravamo inumani.
Sembrava non si potesse fare niente, finché il ministro Minniti non ha dimostrato che si potevano fare cose importanti ed efficaci nel rispetto delle regole, del diritto internazionale, del senso di umanità e delle preoccupazioni del popolo che è generoso ma non è disposto a sopportare l’insopportabile. Naturalmente tutto, prima e dopo Minniti, nella più totale e demenziale indifferenza dei partner europei, senza visione, e senza progetto se non quello del proprio tornaconto. Ed ecco ovviamente come conseguenza la reazione nei singoli paesi, il vento della xenofobia, il sovranismo, fino alle vicende tristissime che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi. Vicende che, per come vengono gestite dai governanti e vissute dai cittadini, producono un vero e proprio imbarbarimento sia nel modo di ragionare che nel modo di sentire e di rapportarsi agli altri.
Non posso giustificare i governi precedenti che, a parte Minniti, non hanno proprio né capito né voluto capire che non si governa con la demagogia. Tanto meno posso giustificare il governo attuale che della demagogia sta facendo la sua arma vincente. Mi chiedo solo quando troveremo finalmente un equilibrio nella gestione di fenomeni complessi come le migrazioni, e quali prezzi alla fine dovremo pagare tutti, anche chi non ne ha colpa, per la deriva prima dell’“accogliamoli tutti” e dopo del “chiudiamo le frontiere” perché “la pacchia è finita”. Due derive che rischiano di spezzare la civiltà di un Paese.
Cambiano i quadri concettuali del mondo. È meglio accorgersene in tempo. Almeno parliamone
di Franco Raimondo Barbabella
“È tutto in pezzi, scomparsa ogni coesione,
ogni giusto sostegno e ogni relazione:
principe, suddito, padre, figlio son cose dimenticate,
poiché ogni uomo per conto suo pensa di dover essere
una Fenice, e che allora non potrà esserci
nessun altro che lui di quella specie che è lui.”
Sono versi del poema An Anatomy of the World, scritto dal poeta e predicatore inglese John Donne nel 1611, dunque poco dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius di Galileo (1610). «E la nuova filosofia mette tutto in dubbio,/ l’Elemento del fuoco è del tutto estinto;/ Il Sole è perso, e la terra, e nessun ingegno umano/ può indicare all’uomo dove cercarlo». È la rivoluzione scientifica (Copernico, Galilei, Keplero) che cambia l’immagine del mondo. Ed è il grido dolente di chi vede crollare il vecchio mondo sotto l’avanzare del nuovo paradigma che spezza l’unità di poesia, teologia e scienza. Tutto cambia, il mondo non è più lo stesso, “ogni uomo per conto suo”.
John Donne si fa interprete dello sconcerto di molti di fronte alla rivoluzione dei quadri concettuali con cui fino ad allora, per tanti secoli, ci si era orientati nel mondo, un cambiamento radicale come poche volte è avvenuto nella storia. Ce ne sono stati almeno altri due di cambiamenti così grandi, uno prima e uno dopo: il passaggio dagli dei al logos, quando nacque la grande filosofia greca che elaborò con Aristotele (poi strutturata da Tolomeo) una solida concezione del mondo, quella geocentrica, durata quasi due millenni anche perché se ne avvalse la teologia cristiana per fare il suo fermo-immagine, e, all’inizio del Novecento, l’affermarsi di due nuove descrizioni del mondo, anch’esse rivoluzionarie, la fisica della relatività e la fisica dei quanti, nella cui dimensione siamo attualmente immersi.
Ora se ne annuncia però un’altra, di non minore impatto, e chissà se troverà un poeta che come John Donne sia disposto a farsi portavoce di quel senso di smarrimento che prende quando un quadro concettuale entra in crisi e però ancora non se ne vede uno nuovo abbastanza rassicurante. Ma soprattutto chissà se le implicazioni che già si intravedono spingeranno ad una riflessione, la cui esigenza è comunque matura, su come reimpostare fin d’ora le strategie educative perché il cambiamento non venga vissuto come spiazzamento ed estraneazione. Anche perché ancora c’è gente che non solo non ha digerito le rivoluzioni del Novecento, ma ama pensare che la rivoluzione copernicana è stata tutto uno scherzo dei nemici dell’ordine universale.
Di questo nuovo cambiamento dei nostri quadri concettuali del mondo ha parlato da ultimo Vincenzo Barone, Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, in un bell’articolo intitolato significativamente “Verso l’origine della vita” pubblicato domenica 17 giugno sul Sole 24 Ore. Barone, che già ne aveva fatto cenno lo scorso ottobre parlando del libro postumo di Giovanni Bignami “Le rivoluzioni dell’Universo”, qui ne ha illustrati stato dell’arte e prospettive. Si tratta dell’astrochimica, appunto un mix di chimica e fisica degli astri, il cui oggetto di studio sono le basi molecolari dell’universo. In sostanza, le acquisizioni scientifiche già disponibili indicano che ha senso impegnare energie per andare alla scoperta dell’origine della vita nell’universo, ciò che rende questa sfida tra le più affascinanti per un essere che come l’uomo ha in sé la spinta irrefrenabile a superare sempre e comunque le colonne d’Ercole della conoscenza.
Dice Barone: “è evidente che la complessità chimica della nostra galassia è probabilmente molto maggiore di quella che si riteneva solo fino a qualche anno fa e che la vita, così come la conosciamo, non solo è possibile altrove, ma sarebbe forse teoricamente ‘ricostruibile’ altrove”. Dunque, come si diceva, un nuovo sconvolgimento dei nostri quadri concettuali, un annuncio di “rivoluzioni che oggi non riusciamo neanche ad immaginare”. Per questo è notizia rilevante la nascita, giustappunto a Pisa, del centro STAR, acronimo di Systems and Theories for Astrochemical Research, il cui compito sarà “di comprendere le basi molecolari dell’evoluzione dell’universo”, in partnership tra Scuola Normale Superiore, Università Federico II di Napoli e Università di Bologna.
Tutto ciò da subito ha una conseguenza importante. Pone infatti la questione seguente, che formula con chiarezza lo stesso Vincenzo Barone: “se continuare a dare o meno importanza alle discipline ‘pure’, come la matematica, la fisica, la chimica, e di ambito umanistico, oppure privilegiare esclusivamente le discipline ‘applicate’, accodandoci definitivamente alla moda anglosassone, così come alle università asiatiche.” È una questione molto seria che coinvolge tutt’insieme la funzione dell’università e quelle della ricerca e della scuola, e con ciò anche la direzione della politica economica e culturale, e in definitiva il destino del nostro Paese. Ma il “Governo del cambiamento” se n’è accorto?
Tornerò sull’argomento. Per ora mi premeva indicare ciò che si muove nelle sfere alte della riflessione sulle implicazioni del movimento delle frontiere della ricerca. Sia per stimolare l’attenzione di chi ancora si preoccupa di pensare al futuro e di aiutare i nostri giovani ad affrontarlo con le necessarie competenze, sia per allontanare (almeno per un momento) la mente mia e di chi vorrà dalla deriva di un “presentismo” che sta diventando asfissiante e castrante.
L’opinione di Leoni
Da quando ho cercato vanamente di capire la meccanica quantistica, dopo essermi sforzato con qualche successo di capire il meccanismo del DNA, seguo distrattamente gli articoli scientifici divulgativi sui quotidiani. Se sono scritti da gente che sa scrivere, mi fanno l’effetto di divertenti racconti di fantascienza. Se sono scritti da gente che sdottora snobbando le tecniche di scrittura giornalistica, li metto nel cestino della raccolta differenziata dove c’è scritto “carta”. Non ho più tempo per studiare ciò che non posso apprendere nel breve periodo, o forse nel medio, ma con la ferma certezza che, come disse Keynes, “nel lungo periodo siamo tutti morti”.
Ma voglio citare anch’io un poeta.
“Ognuno sta sul cuor della terra,
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera”.
Salvatore Quasimodo sintetizzò così l’illusione dell’essere umano di essere al centro dell’universo, colpito da una folgorante illuminazione, quando, improvvisa, arriva la morte.
Era stato però anticipato da una vecchietta del mio paese che, nella festa del suo centesimo compleanno, aveva risposto così a una ragazza che le aveva chiesto di sintetizzare la sua lunga vita:
“Me sò affacciata un momento a la loggetta e l’ho richiusa”.
Se ci fosse giustizia in questo mondo, il Nobel l’avrebbe ricevuto lei.
Sold out al Teatro Mancinelli per lo spettacolo di Chiara Francini
ORVIETO – E’ un Teatro Mancinelli sold out quello che attende Chiara Francini domenica 17 novembre alle 18 a Orvieto....