La enigmatica salvezza dei piccoli comuni
di Pier Luigi Leoni
I piccoli comuni italiani sono stretti nella morsa dello spopolamento e della carenza di risorse finanziarie. I governi non sanno quali immensi danni sta procurando all’ambiente, all’economia e alla cultura il degrado dei piccoli comuni. La strada delle fusioni, delle unioni e delle associazioni si è rivelata un vicolo cieco, nell’illusione che i proverbio “l’unione fa la forza” possa essere preso alla lettera. Invece l’unione delle debolezze può dar luogo a un’altra debolezza.
Mi spiego. Le ricerche socio-economiche sugli enti locali rivelano che i comuni al di sotto dei 30.000 abitanti non riescono sovente ad assicurare adeguati servizi ai cittadini con le risorse di cui dispongono. Di conseguenza i cittadini tendono a spostarsi nei centri maggiori dove trovano scuole, uffici, banche, negozi ecc. Gli insediamenti umani si riorganizzano in sistemi urbani dove i centri maggiori si consolidano e si riorganizzano, mentre i centri minori vedono diminuire popolazione e risorse. Le eccezioni positive abbondano per ragioni climatiche o per la presenza di industrie, ma il fenomeno del degrado è molto marcato nei territori montani e in quelli distanti dalle grandi infrastrutture.
Molti piccoli centri cominciano col perdere le scuole, poi la banca, poi l’ufficio postale, infine i negozi. Con la chiusura dell’ultimo bar, quello che era un centro abitato, capoluogo o frazione di un piccolo comune è ridotto a borgatella dove è difficile vivere. La soluzione non può che essere nella legge; cioè nell’accollare alla comunità nazionale il costo dei benefici che ricava dalla disseminazione sul territorio dei piccoli comuni e delle loro frazioni.
Benefici in termini di tutela del territorio dal punto di vista dell’assetto idrogeologico, forestale e viario, e in termini di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale sia nel suo aspetto artistico che in quello antropologico. Però le leggi a favore dei piccoli comuni proposte da parlamentari sensibili al problema languono in parlamento. Credo sia dovuto al fatto che la gran parte dei parlamentari provengono dalle città e quindi hanno mentalità, cultura e sensibilità cittadina.
Spero che cittadini e amministratori di piccoli comuni maturino piena consapevolezza del problema e non s’illudano di usare la forza politica che non hanno, ma di conquistare alla loro causa i politici di città con la forza della consapevolezza, della passione e della persuasione, incuneandosi nelle sofferenze e nelle frustrazioni di chi vive in città, specialmente nelle metropoli.
L’opinione di BarbabellaConcordo con Pier sul suo grido d’allarme per il deperimento delle funzioni storiche dei piccoli comuni rispetto alla salvaguardia ambientale e alla capacità di tenuta del tessuto sociale e culturale del territorio. Una politica generale miope non ha prodotto strategie efficaci né di valorizzazione né di contrasto e di reazione al degrado. Ma è anche vero che le classi dirigenti locali non sono riuscite a superare il particolarismo secolare che blocca ogni politica di coordinamento. La condizione peggiore è quella di non essere oggi né carne né pesce.
Il risultato è la perdita di ruolo, l’impoverimento dei servizi, l’invecchiamento e appunto un processo di incipiente emarginazione, interrotto talvolta e contrastato con iniziative intelligenti, seppure sporadiche, da parte di classi dirigenti non schiacciate sui piccoli interessi locali e capaci di uscire dalle logiche tradizionali di conservazione. Io penso che su questo terreno della qualità e dell’orientamento delle classi dirigenti locali si giochi gran parte della partita del nostro futuro, anche quello delle città grandi.
Non sono però per niente tranquillo che vi sia di ciò una consapevolezza diffusa, nemmeno tra i ceti intellettualmente più riflessivi e tra le persone con il cuore più aperto alla pluralità delle esperienze. E nemmeno tra i portatori di interessi sani sia dal punto di vista economico che sociale. Figurarsi tra coloro che amano il sovranismo, che spinge inevitabilmente verso un decisionismo centralistico completamente indifferente ai processi di lungo periodo e di equilibrio territoriale. E figurarsi se ci può essere sensibilità per tali questioni da parte di coloro che si lasciano affascinare dalla politica che va per le spicce, quella dei businessmen alla Trump. Non possiamo che confidare dunque nel potere magico delle contraddizioni. Et voilà!!!
Schiacciati sul presente, i governanti non vedono il futuro che passadi Franco Raimondo Barbabella
Qualcuno ha detto che il futuro arriva quando sei impegnato in un’altra cosa. Il senso è che se ti lasci prendere dai problemi che urgono non ti accorgi di dove sta andando il mondo, perdi lo sguardo lungo, non dai senso alle cose, non senti e non capisci la domanda di futuro. È ciò che è accaduto alle classi dirigenti italiane da alcuni decenni. E i nuovi, quelli che si presentano come tali, non fanno eccezione.
Mentre le indagini internazionali continuano a mostrare l’affanno del nostro sistema scolastico a confronto con quelli degli altri Paesi sviluppati, arrivano da tempo notizie allarmanti anche sul clima educativo di molte scuole in cui i fenomeni di violenza sono sempre più frequenti. A fronte di ciò, a nessuno viene in mente di mettere istruzione e formazione al primo punto di un programma di ricostruzione del Paese. Non lo fa il Presidente del Consiglio, che si dimentica letteralmente di scuola e giovani nel suo discorso di insediamento. Non risulta abbia detto qualcosa nemmeno il nuovo ministro dell’istruzione. Non me ne stupisco. Non lo fa l’opposizione e non me ne stupisco lo stesso.
Lo fa invece Alessandro D’Avenia, che in un articolo di lunedi 4 giugno sul Corriere della sera, dopo aver riferito di una serie di lettere di studenti che denunciano il pessimo stato della didattica di cui debbono obtorto collo fare esperienza, ne riassume il senso citando le parole di un manifesto di protesta comparso da poco sui muri di Milano: «Quando entriamo a scuola siamo pervasi da una sensazione di noia o di vacuità che ci rende insofferenti e polemici: alla nostra vita così come alla scuola chiediamo di generare senso». La ragione è che il nostro «È un sistema che genera quelli che chiamo “in-docenti”, coloro che, pur potendo essere ottimi insegnanti, vengono silenziosamente sacrificati da un contesto che neutralizza o addirittura umilia».
E lo fa soprattutto la Rivista Internazionale, che con un articolo del 6 giugno a firma di Simone Romano sottolinea quanto emerso nel recente summit del Think 7/Ideas 7 organizzato in vista del Vertice del G7 di La Malbè, Canada, dell’8 e 9 scorsi. In tale summit ci si è chiesti quali dovevano essere i temi prioritari che i 7 grandi avrebbero dovuto affrontare. Forse il ritorno al protezionismo, le tensioni su vari scacchieri, l’instabilità politica diffusa, le sfide globali come quella ambientale e quella tecnologica?
La risposta è stata che no, non dovevano essere questi. Invece “ciò che i capi di Stato e di governo delle sette economie più avanzate dovrebbero fare è guardare oltre le questioni più urgenti e contingenti, concentrandosi sulla dimensione strutturale che lega molte delle maggiori sfide attuali: un mondo più pacifico, meno diseguale, più coeso e in grado di rispondere alle sfide della modernità è possibile solo tornando a dare un’importanza centrale all’istruzione, soprattutto quella pre-universitaria”.
In altri termini “C’è bisogno di ridare centralità ad un’istruzione che sappia favorire lo sviluppo culturale di cittadini consapevoli e responsabili prima ancora che di professionisti: cittadini in grado di comprendere criticamente la complessità che li circonda e la loro responsabilità per il bene comune, contribuendo allo sviluppo della loro comunità locale, nazionale e globale”.
Invece tutta l’attenzione è occupata dalla preoccupazione di rilanciare l’economia attraverso la produzione e la finanza, trascurando di conseguenza l’unica vera strategia capace di futuro che è il sistema di istruzione e formazione. Così conviene ricordare le drammatiche parole di Euripide (le Supplici): «Come può essere salda una città/quando si strappano via i giovani coraggiosi/come spighe nei campi a primavera?». Ma ricordarle a chi? Schiacciati sul presente, i governanti non vedono il futuro che passa.
L’opinione di Leoni
Il ragionamento di Franco calza, e l’opinione che ne deriva non fa una piega. Sennonché anche le più razionali delle opinioni sono influenzate dalla emozioni. Franco, uomo di scuola, è influenzato dalla pena per i ragazzi che sono privati di ciò che la scuola dovrebbe e potrebbe dare a loro e alla società, ma non dà. Io, dopo una vita da segretario comunale, tendo a essere più angosciato dallo sfacelo delle autonomie locali e segnatamente dei piccoli comuni. Del resto anche Platone non sarebbe stato Platone se non avesse assistito in lacrime alla morte di Socrate. Né Carlo Marx avrebbe messo in agitazione il mondo moderno se non avesse provato pena e ribrezzo per lo sfruttamento brutale di adulti e piccini nelle industrie tessili inglesi.
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