Intossicazione da cellulare
di Pier Luigi LeoniBisogna riconoscere che gli americani sono più bravi di noi nel semplificare per la massa i problemi difficili e nel dare consigli per affrontarli.
Einaudi sta per pubblicare “Interconnessi” di una certa Jean Twenge e Mondadori ha appena stampato il saggio di una certa Catherine Price intitolato “Come disintossicarti dal tuo cellulare”. Twenge fornisce dati che dimostrano che con l’esplosione dell’uso degli smartphone sono aumentate le crisi depressive e i suicidi dei giovani. Price spiega come il meccanismo che crea dipendenza da telefoni, smartphone e tablet sia lo stesso delle sostanze stupefacenti: «Molte delle sostanze chimiche inebrianti del cervello e dei meccanismi di ricompensa che conducono alle dipendenze da sostanze stupefacenti vengono rilasciate e attivate ogni volta che controlliamo il telefono. Le società che producono i telefoni e le app non soltanto sono consapevoli dei loro effetti sul cervello, ma imbottiscono i loro prodotti di caratteristiche capaci di attivarli, con l’esplicito obiettivo di indurci a dedicare la maggior quantità di tempo e di attenzione ai nostri dispositivi».
Price consiglia, nei casi più gravi, di rivolgersi agli specialisti, ma fornisce dei consigli pratici per disintossicarsi. Ne cito alcuni, anche se possono sembrare banali.
Scaricare un’app di gestione del tempo per monitorare la frequenza con cui siamo impegnati nei nostri dispositivi.
Cancellare le app dei social media.
Dire no alle notifiche.
Pulire lo smartphone dalle app che rubano attenzione;
Tracciare confini, cioè stabilire momenti e zone in cui decidiamo di non utilizzare lo smartphone, non solo per poter dormire, mangiare e fare all’amore, ma anche per poter studiare, meditare, pregare, leggere, fare movimento e assistere a uno spettacolo.
Smettere con il phubbing, cioè la pratica di ignorare gli altri per usare lo smartphone.
Dei suddetti consigli mi convince più di tutti l’ultimo, perché è assistito dalla forza del galateo, che è un aspetto della morale. Ricordare con diplomazia a chi pratica il phugging che si sta comportando da cafone rafforza la nostra speranza in un mondo migliore.
L’opinione di Barbabella
Evidenziare questi problemi è senz’altro utile, ed è vero quello che dice Pier circa il valore del richiamo al rispetto degli altri che è aspetto importante di un’etica della convivenza civile in via di progressiva attenuazione, speriamo non di sparizione.
Mi sembra però anche utile mostrare non dico meraviglia ma almeno attenzione al fatto che la società americana è maestra a livello mondiale di gestione delle logiche della società di massa. La capacità di intasare la vita delle persone con qualcosa che produce arricchimenti ai pochi succhiando soldi con voracità industriale ai molti, corrisponde infatti anche alla capacità del sistema di studio e di ricerca di indicare gli antidoti che poi tendono a diventare a loro volta prodotti di consumo di massa. Meraviglioso, no?
Lo ripeto, non possiamo stupircene; dobbiamo però attrezzarci a sostenere e respingere con la nostra capacità di autodifesa l’aggressione antiumana della società di massa. D’altronde soluzioni radicali già storicamente sperimentate (tipo liquidazione del capitalismo con la socializzazione dei mezzi di produzione, cioè il comunismo) non sembra abbiano dato buona prova. Mentre nuove strategie di soluzione radicale annunciate da qualche anno anche dalle nostre parti, dico la “decrescita felice”, non pare preannuncino il migliore dei mondi possibili. Dunque conviene pazientare e usare il buon senso, se ancora ne disponiamo.
Difficile fare la storia con il tifo da stadio
di Franco Raimondo BarbabellaSi dice che in questa parte del mondo si stia facendo la storia. Qualcuno lo dice ormai con insistenza. Toccherà dunque preoccuparsene. Vediamo.
Quando, dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, Francis Fukuyama, politologo e storico statunitense di fama, pubblicò The End of History and the Last Man (“La fine della storia e l’ultimo uomo”) la cui tesi centrale era che eravamo arrivati allo snodo epocale per cui si entrava nella fase finale della storia, io provai solo un po’ di tenerezza. I miei studi di filosofia e di storia, e in quel contesto anche di economia e di sociologia, mi avevano reso tetragono al suono delle sirene di chi nel corso dei tempi aveva parlato di culmine e fine della storia.
Era il 1992 e già allora bastava guardare in faccia il mondo per accorgersi che i suoi vecchi problemi e i nuovi che stavano nascendo dimostravano da soli che la storia non stava affatto per finire. Poi si è visto con chiarezza e se ne sono accorti anche i ciechi. Il fatto è che nessuno può prevedere il movimento della storia, tanto più nell’epoca dell’interconnessione planetaria dei fattori che lo determinano. Anzi, bisogna rendersi consapevoli che l’unica certezza è l’incertezza. E non sembri un paradosso, è il portato del Novecento, non bisogna lamentarsene. Ma fare la storia resta una cosa seria, soprattutto nel mondo dell’incertezza per cui, se ti presenti come chi vuole fare la storia, non puoi agire poi come chi sta vendendo pannina.
Ce lo testimoniano Salvini e Di Maio, i dioscuri delle nuove danze italiche. La loro inventiva ha una forza pari alla noia di doverne seguire gli arzigogoli di sabbia. La collezione ormai è grande e qualcuno un giorno dovrà fare la fatica di studiarne la logica per vedere se ce n’è una che non sia solo quella, come oggi appare anche ai più benevoli, della caccia ai posti di comando e alle soluzioni funzionali a tale scopo. Devo dire che si rimane ammirati della loro capacità di passare con disinvoltura da una posizione ad un’altra dimentichi stasera di ciò che avevano detto stamane.
Eppure si presentano come attori di cambiamenti epocali. Dice Di Maio: “Stiamo facendo la storia” e “Nasce finalmente la Terza Repubblica”. Ti viene da dire: “Eh, la Peppa!”, ma loro ci credono sul serio. Qui però sta la differenza, quella che a me non consente né di entusiasmarmi di fronte a modi di pensare e di fare che mi appaiono superficiali e di disistima per l’intelligenza di quel popolo al quale fanno costantemente riferimento, né di capire bene il tifo sgarrupato dei neofiti della politica. Il fatto che Salvini sia ora arrabbiato perché le cose non vanno come vorrebbe non mi fa cambiare opinione.
Quale è questa differenza? Già lo sapevo quale era, ma stamane (scrivo nel pomeriggio di venerdi) mi è divenuto chiaro in modo inequivocabile. Ho partecipato al convegno dedicato al quarantennale della legge speciale 230/’78 per Orvieto e Todi. Lì è emerso con assoluta evidenza che il sistema politico-amministrativo e quelli tecnico-scientifico ed economico-operativo, allora avevano operato in sintonia senza chiedersi se stavano facendo la storia e avevano agito però con una visione e una strategia progettuale pensate per il futuro delle due comunità come parti di una comunità più vasta, proiettata fino alla dimensione internazionale. Sguardo lungo, idea di comunità, cose fatte per essere proposte come modelli.
Oggi chi dice di fare la storia la fa pensando al minuto in cui la comunica, sapendo che verrà dimenticata il minuto successivo e che perciò bisogna pensare a che cosa dire dopo e dopo ancora. Il fare è anzitutto il dire. Ma che storia è mai questa! Ma quale Terza Repubblica! Questa non è nemmeno il ritorno alla Prima Repubblica, quella vera, essendo le altre pure invenzioni. Con le cose serie o ci si pone a dimensione giusta o è meglio lasciar stare. Ma a chi dirlo quando il rumore del tifo da stadio copre le parole della riflessione? La storia alla Salvini e Di Maio meglio farla fare a Ronaldo, lui la sa fare (questo l’ho aggiunto domenica mattina, non ho resistito).
L’opinione di Leoni
Luigi Di Maio e Matteo Salvini, quei due che dicono di stare facendo la storia e di inaugurare la terza repubblica italiana, ho l’impressione che recitino un copione al quale non credono, ma si vergognino di deludere un pubblico che hanno attirato nel loro circo al grido: «Venghino siore e siori; venghino! Vi abbasseremo le tasse e i disoccupati riceveranno ogni mese un bell’assegno in attesa di un lavoro che non c’è». Seguivano ognuno la propria strada e se ne dicevano di cotte e di crude, sapendo o sperando che non avrebbero avuto i numeri per governare.
Ma sono stati travolti dai fatti. Non tanto dal risultato prevedibile di elezioni con sistema proporzionale, ma dal fatto che né i parlamentari eletti né gli elettori hanno voglia di tornare inutilmente alle urne. Poiché sto scrivendo la sera di sabato 26 maggio, non so se riusciranno nell’intento di sabotare il governo che fanno finta di voler mettere insieme. Ma se non ci riusciranno adesso, basterà aspettare qualche mese. Ma forse non ci ho capito niente. Però mi conforta ciò che ha scritto Philip Roth (lo scrittore americano morto pochi giorni fa che tutti piangono, costernati e indignati perché non gli hanno assegnato il Nobel): «Capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male».
Tardani: “La rinnovata fiducia una responsabilità da condividere per rispondere alle aspettative della città”
ORVIETO –Venerdì 20 dicembre, nella Sala consiliare si è tenuto il consueto incontro tra la Giunta e i...