Contro l’olocrazia antisistema occorre cambiare il cambiamentodi Franco Raimondo Barbabella
Scrivo nel giorno in cui si ricorda Marco Pannella ad un anno dalla scomparsa e a ridosso da una parte del 40° anniversario dell’assassinio di Aldo Moro e dall’altra del 30° anniversario del quasi assassinio di Enzo Tortora. Tre grandi della democrazia, Pannella campione della legalità e dello stato di diritto, la sostanza della democrazia liberale, Moro statista a tutto tondo capace di intuire la necessità storica e di sacrificarsi per essa, Tortora l’innovatore che resiste con animo eroico all’invidia del successo onesto della capacità, alla ferocia del processo massmediatico e all’ingiustizia della giustizia preordinata.
Scrivendo con in testa queste immagini, non posso non vedere la distanza con l’oggi e non cercarne il perché. Che a mio avviso è dato dal fatto che siamo giunti oggi al culmine di un lungo processo caratterizzato dalla voglia di destrutturazione dello stato democratico (regole, costume, ispirazione). Un processo iniziato proprio con l’assassinio di Moro (lo stato che con la non-trattativa decide di sacrificare il suo uomo simbolo e dunque se stesso), proseguito con il quasi assassinio di Tortora (evento dai molti significati: massacro massmediatico di un uomo giusto; esaltazione di un potere giudiziario fuori controllo che di li a poco avrebbe occupato lo spazio lasciato libero da una politica miope e fellona; soprattutto, l’inizio del passaggio dalla democrazia all’olocrazia, il potere affidato formalmente alla totalità del popolo, dunque a pulsioni di pancia, cioè di fatto e per forza di realtà esternazioni irrazionali eterodirette), segnato infine simbolicamente dalla scomparsa di Pannella quasi a indicare l’arresto per sfinimento della lotta per la società aperta (quella, oltre che di Pannella, di Capitini, Calogero, Rossi, La Malfa e tanti altri).
Oggi stiamo vivendo il culmine di questo processo di cambiamento. Sono perciò tra quelli che vivono l’attuale fase storica come storia triste, passaggio a qualcosa che non ci piace, e tuttavia lo dico subito, non per questo come storia priva di interesse che meriti di conseguenza distacco o rinuncia. D’altronde io sono figlio della ricostruzione e delle speranze di miglioramento fatte di studio, preparazione, coraggio e spirito di sacrificio. Mi hanno appassionato le idee e le lotte dei personaggi che ho ricordato sopra. Conosco poi la politica e so che si può agire con spirito di comunità, conosco l’amministrazione pubblica e so che in essa si può ben operare con dignità facendo il proprio dovere. Mantengo dunque la convinzione che, nonostante che il colore prevalente stia diventando il gialloverde, c’è spazio per continuare a stare dentro la storia con la testa e la passione civica, per colorarla di altri colori pastello.
Certo, occorre per questo esercitare il potere critico del pensiero e avere il coraggio delle scelte con esso coerenti, cose difficili ma possibili. Addirittura, la situazione generale odierna con anche i suoi riflessi locali può aiutarci a chiarire la natura di ciò che per anni ci è stato presentato come ovvia necessità di risanamento e futuro. Parlo appunto del cambiamento, parola magica il cui contenuto evocativo variamente interpretato per anni e anni avrebbe dovuto insospettire e invece ha ammaliato generazioni. Così non è bastato sprecare persone con vesti di “giovani” e “donne”, né rendere comica l’espressione “rivoluzione liberale” e ridicola la parola “rottamazione”. Per giungere al culmine c’è voluto altro, il vaffa e la ruspa, prima ognun per sé e ora, sembra, dio per tutti.
Siamo appunto a quello che viene presentato come il cambiamento supremo, quello oltre il quale non si può andare, il passaggio storico. Siamo al fatidico “lasciateci lavorare, stiamo facendo la storia”. Già, la storia che cambia per negare il cambiamento, la conservazione mascherata da rivoluzione. La controprova? I nostalgici delle diverse salse comuniste e cattocomuniste che o auspicavano ieri l’alleanza PD-M5s o invidiano oggi quella gialloverde e si apprestano ad accoccolarvisi. Insomma, alla prova dei fatti, è il cambiamento che cambia i suonatori (pochi) e non cambia la musica. Anzi, sembrano tornati, peggiorati, i metodi di un tempo: vertici riservati, trattative di potere, strategie di spartizione. Il tutto condito in salsa antiparlamentare e antirappresentativa (Comitato di Conciliazione, potere fuori dal Parlamento). Di più, fuori dalle regole costituzionali e contro di esse: istituzione del vincolo di mandato (precedenti da non citare perché inquietanti), il potere decisionale totalmente nelle mani dei vertici dei partiti. Il cambiamento come avventura. Non parlo, non è necessario, degli altri aspetti, ad esempio il cambiamento in deficit e il cambiamento centrato sulla sicurezza illusoria del trionfo delle manette.
Come si preparano a contrastare questa deriva le forze nazionali che con i loro comportamenti si sono candidate alla scomparsa? Per ora zero, quasi che si aspettasse il peggio per dire io sono il meglio. Qualche segnale di resilienza nelle forze ufficiali istituzionali e partitiche sparse nei territori? Sostanzialmente poco o niente, se non discorsi privati affannati per capire come dislocarsi nella situazione di potere che si sta delineando. Credo perciò che ci sia l’impellente necessità di coraggiose iniziative trasversali, più che ideologiche ideali e insieme concrete, convinte nella strategia e credibili nella pratica. Necessità che si muovano tutti coloro per i quali cambiamento significa ancora riforme vere per una democrazia seria e responsabile, per un miglioramento equo e solidale, per il funzionamento delle istituzioni, per giustizia, libertà, capacità e responsabilità, e non corsa verso il niente ammantato di rivoluzione parolaia. Contro l’olocrazia antisistema occorre dunque cambiare il cambiamento.
L’opinione di Leoni
Diceva Pitigrilli, sfottendo i puristi, che la lingua la fa il garzone del trippaio. Un aforisma che ebbe fortuna perché significa tutto e non significa niente. Infatti può essere applicato anche alla politica. I garzoni dei trippai parlano e votano e s’innamorano delle parole e delle ideologie che fanno loro comodo, ma poi si disinnamorano e vogliono cambiare parole e ideologie. Seguono annoiati e infastiditi le commemorazioni di personaggi che non possono soddisfare i loro desideri presenti. Simpatizzano con coloro che gridano più forte nel promettere. Imprenditori, professionisti e, in genere, il ceto medio tormentato dalle tasse s’innamorano della flat tax, cioè dell’aliquota unica dell’imposta sul reddito. Non ne sono sicuri, ma sperano che un impegno del governo nel ridurre le tasse comporti una sforbiciata agli sprechi e ai privilegi. I poveretti che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena sperano nell’aumento delle pensioni minime e nel cosiddetto reddito di cittadinanza. Gli speranzosi sono diventati maggioranza e cercano di mettere insieme le due incompatibili speranze. A tutti gli altri, cioè agli orfani inconsolabili delle ideologie, ma soprattutto a coloro che non sopportano il cattivo odore della demagogia, c’è chi consiglia di godersi lo spettacolo in silenzio masticando pop-corn. Io consiglio di non tapparsi la bocca. Non solo per fischiare quando è il caso di fischiare, ma anche per dire qualcosa di sensato… e di nuovo.
Apparteniamo ormai al genere “homo stupidus”?
di Pier Luigi Leoni
I cosiddetti media, cioè i mezzi di comunicazione di massa, non si rivolgono a un pubblico di specialisti, ma all’uomo medio che compone la massa. Però m’imbatto sovente in articoli pubblicati da giornali cartacei e on line che non riesco a capire. È solo una questione di stupidità da parte mia oppure di incapacità di comunicare da parte di chi esprime opinioni con mezzi destinati all’uomo medio? È troppo se chiedo di essere considerato un uomo medio?
Mi sono ancora una volta posto queste domande leggendo su huffington post una intervista al famoso psichiatra Vittorino Andreoli intitolata «Siamo la società dell’homo stupidus stupidus stupidus. Oggi solo gli imbecilli possono essere felici». Una redattrice.
interroga Andreoli sul suo ultimo romanzo-saggio intitolato Il silenzio delle pietre, che comincia così: «Viviamo in una società dominata dalle frustrazioni. La sensazione prevalente è quella di trovarsi in un ambiente in cui ci si sente esclusi, ci si sente insicuri, si ha paura. Si accumula così la frustrazione, che poi diventa rabbia. E la rabbia sa a cosa porta? Porta alla voglia di spaccare tutto. Il nostro tempo non è violento, è distruttivo». Poiché il titolo del libro e il suo incipit non mi dicevano niente, ho cercato di scoprire l’arcano sorbendomi tutte le domande e tutte le risposte dell’intervista. Non ci ho capito un’acca. Ecco uno stralcio dell’intervista:
«DOMANDA: Adesso?
RISPOSTA: Adesso abbiamo il periodo della stupidità.
D: Perché dice così?
R: Perché governa l’irrazionalità! Domina l’assurdo. Non c’è il senso dell’etica. Peggio di così… E come conseguenza della stupidità abbiamo la regressione all’homo pulsionale.
D: Ricordavo che appartenessimo all’homo sapiens sapiens.
R: No! In questo momento storico in cui domina l’assurdo, noi siamo l’homo stupidus stupidus stupidus.
D: Per quale motivo?
R: Tutti pensano a se stessi. Nessuno pensa che siamo un Paese. E questa è la stupidità. Se oggi uno non è stupidus in questa società non può vivere.»
Subito dopo l’intervista, la banca GOLDMAN SACHS invita a investire in palladio, un metallo raro che assicurerebbe un guadagno del 50 per cento ogni anno. La banca s’è fatta convincere dal famoso psichiatra e mi prende per stupidus.
L’opinione di Barbabella
Vedo, caro Pier, che hai capito benissimo che cosa dice Andreoli. E francamente non mi pare dica sciocchezze. Che l’homo sapiens possa perdere la sua aggettivazione biologica per assumerne una psicologica che ne rovesci simbolicamente approdo evolutivo e funzione socioculturale è un espediente retorico abile. D’altronde anche a noi piace fare questi giochi logici e linguistici. Quello di Andreoli meglio di altri rende l’idea di una fase storica piena di incognite e tensioni, che sul piano individuale generano poi quel cortocircuito frustrazione-rabbia che, diventando di massa, influenza la nostra vita sia in direzione del futuro che nella normalità del giorno per giorno. Non demonizziamo dunque il buon Vittorio Andreoli, e se del caso preoccupiamoci piuttosto di Goldman Sachs e del palladio, che non è né il simulacro che i greci credevano difendesse la propria città, né il grande architetto delle ville venete che volendo possiamo visitare con nostro grande godimento, ma un metallo raro e prezioso che, almeno per me, non è alla portata.
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