Passatempi per intellettuali delusi.
di Pier Luigi LeoniFino al Millenovecento, l’uomo comune poteva aspirare a formarsi una concezione unitaria del mondo con l’aiuto delle scienze e della filosofia. La follia di tale aspirazione era attutita dal fatto che esistevano intellettuali che si erano avvicinati al massimo obiettivo dell’essere umano: trovare il bandolo del mondo, che ci appare come una inquietante matassa aggrovigliata. Quegli uomini geniali erano presi come punti riferimento e venerati come Maestri.
Ma, nei primi decenni del Millenovecento, le scienze sono diventate così tante e così specialistiche che hanno moltiplicato i linguaggi settoriali (indispensabili per semplificare e universalizzare la comunicazione fra specialisti) ma sempre più incomprensibili, non solo per l’uomo comune, ma anche per i cultori di altre scienze. Fino alla scoperta del DNA, è stato possibile l’accesso della persona colta all’importanza della nuova scoperta, ma con l’avvento della meccanica quantistica, sono cadute le speranze di afferrare il bandolo di questo nostro mondo, non solo per gli uomini comuni, ma anche per i filosofi.Ora le persone colte devono accontentarsi di essere semicolte e infatti, per non perdere l’abitudine alla ginnastica mentale, cercano sollievo nel coltivare interessi poco impegnativi intellettualmente come, ad esempio, lo sport, il gioco, il collezionismo, il giardinaggio e la gastronomia. Queste discipline non disdegnano le scienze, ma attutiscono, con un po’ di creatività e di poesia, il disagio di non poter essere filosofi, storici, botanici, chimici, biologi, nutrizionisti, psicologi, neurologi ecc. a un livello decente. Ah! Dimenticavo la politica: il più raffinato passatempo per non buttar via soldi in altri passatempi e, se viene bene, anche per buscare qualcosa.
Quindi non c’è da vergognarsi nel coltivare passioni dove abbondano le opinioni e scarseggia la verità.
L’opinione di Barbabella
In realtà la verità scarseggia un po’ dappertutto, comprese scienza e filosofia. Nei campi in cui la verità è un approdo di ricerca (sempre provvisorio) il suo essere scarsa non è un limite, mentre lo è nei campi in cui le verità acquisite vengono ignorate o appunto per ignoranza o per scelta. Nel Novecento, da una parte la filosofia e dall’altra la scienza hanno abbandonato, l’una l’ambizione di costruire sistemi concettuali capaci di prevedere il futuro con la conoscenza del passato (“la storia a disegno”, come Croce definiva la concezione della storia sia di Hegel che di Marx), e l’altra l’ideale di una conoscenza oggettiva capace di rappresentare il mondo come effettivamente è, autoriproduttiva di certezze assolute e garante di un progresso continuo e inevitabile.
Insomma, con il Novecento è crollato il mondo delle certezze assolute. Ecco in che senso diciamo che se la verità scarseggia è un bene che scarseggi. Ma se questa va considerata un’acquisizione positiva, visti i limiti teorici e le conseguenze pratiche sia delle grandi filosofie della storia ottocentesche che dello scientismo positivista, non è che con ciò si possa dire finita la ricerca di verità nel tentativo di andare oltre ciò che già si sa e al fine di una spiegazione razionale dei fenomeni sia del mondo fisico che del mondo umano.
Le teorie della relatività e dei quanti hanno appunto questa natura: strategie di ricerca che ampliano i nostri orizzonti, ma ben lontane dall’inseguire le leggi eterne alla maniera della meccanica classica. Non dimentichiamo che era stato Kant nel secondo Settecento a spostare il baricentro della riflessione dall’oggetto al soggetto, concludendo poi il suo percorso di ricerca con quel “sapere aude!” che è un invito a non interrompere mai la ricerca, un invito perentorio al coraggio nell’uso della ragione, lo strumento della libertà, della giustizia e della collaborazione per e tra gli umani.
Certo, il mondo dell’incertezza è insieme anche il mondo dell’insicurezza e della tentazione di fuga dalle responsabilità. Perciò è accaduto (basti citare “Escape from freedom”, libro di Erich Fromm del 1941, a proposito delle condizioni psicosociali che avevano facilitato l’ascesa del nazismo) e accade che in determinate circostanze si preferisca affidarsi ad altri piuttosto che correre i rischi della responsabilità. D’altronde l’esercizio della libertà, si sa, è un esercizio difficile e impegnativo, richiede sacrifici spesso non riconosciuti e produce, insieme a illusioni esaltanti, anche disillusioni cocenti. Per questo non c’è l’obbligo di fare gli eroi né quello di diventare santi.
E come non si può essere santi ed eroi per legge, così non si è nemmeno obbligati a dedicarsi all’impegno pubblico, sia perché la cura delle cose private è doverosa, sia perché la vita a una dimensione sarebbe davvero troppo povera. No, non credo sia da biasimare chi si sente impegnato ad assicurare prioritariamente a sé e ai suoi cari sicurezza e dignità e chi nel contempo coltiva interessi e distrazioni che gli riempiono la vita rendendola la più colorata possibile. Sono da biasimare solo gli indifferenti.
Che tristezza questi sindaci che fuggono dalle loro responsabilità!
di Franco Raimondo BarbabellaNel mio elzeviro dello scorso 23 aprile segnalavo la proposta di legge del sindaco di Firenze Dario Nardella per l’inserimento nei programmi di studio di tutte le scuole della materia “educazione alla cittadinanza”, concepita come un’ora settimanale con tanto di voti e bocciatura ritagliata nell’orario delle materie umanistiche.
L’avevo giudicata così: “Demagogia pura, non solo perché l’obbligo di educazione alla cittadinanza già esiste (altra questione è perché non viene praticato), ma perché è assurdo togliere ore a materie già falcidiate dalla politica del risparmio e soprattutto perché solo il culto dell’apparire può far pensare di risolvere i problemi del bullismo, della maleducazione diffusa e addirittura della violenza con il voto in una materia curricolare.”
Ora questa proposta è stata fatta propria anche dall’ANCI, l’associazione dei comuni italiani, e rilanciata sulla stampa dal suo presidente, il sindaco di Bari Antonio Decaro. Il mio giudizio non cambia, anzi si aggrava. Sembra che all’improvviso i sindaci italiani si siano accorti non solo del disordine, delle scritte sui muri, delle insegne divelte, del vandalismo di ogni genere, ma anche della maleducazione e del bullismo dei giovani. Così hanno fatto una semplice equazione: maleducazione e bullismo dei giovani uguale vandalismo e degrado delle città.
Dice infatti Decaro: «Sia una materia autonoma e con voto indipendente, si chiamerà “educazione alla cittadinanza”», perché «bisogna recuperare il senso di comunità, insegnare il rispetto del bene comune», magari «anche cancellando le scritte sui muri». Ecco, questo modo di ragionare mi indigna. Non certo perché non è vero che c’è maleducazione diffusa e bullismo e che questo magari si traduce anche in atti di vandalismo, ma perché mi sembra assurdo anche solo pensare di risolvere così alla sbrigativa problemi così complessi. Perciò, ribadisco, questa è demagogia pura e fuga dalle responsabilità.
Sarà il caso di ricordare ai sindaci che dal 2008 “Cittadinanza e Costituzione” è materia trasversale e obbligatoria, e le scuole (lo ha ricordato sul Corriere Claudia Voltattorni) sono tenute ad occuparsi di “democrazia, legalità, diritti, doveri, uguaglianza, rispetto dell’altro e delle regole: tutte «competenze» che dal prossimo giugno entrano per la prima volta nell’esame orale di terza media e dal 2019 in quello di maturità.” Sarà anche il caso di invitarli a riflettere sul perché tutto ciò non basta e soprattutto perché non funziona.
Non è che per caso bisognerà cambiare modo di ragionare e anche radicalmente modo di operare? Non è che per caso i sindaci devono dare l’esempio di un modo di amministrare più coerente e rigoroso? Non è che per caso c’è bisogno in generale di una esemplarità dei genitori e degli adulti in generale? Non è che c’è bisogno di dimostrare che la legge è uguale per tutti e che le regole non sono barzellette che si raccontano a veglia?
Certo che, come dice ancora Decaro, «Vanno rimessi al centro i capisaldi del vivere in comunità, insegnare ai ragazzi a essere e sentirsi cittadini», ci mancherebbe che non fosse così! E ovvio che è anche compito della scuola. Ma non può essere solo della scuola. Insomma, bisogna prendere atto che il problema dei comportamenti incivili è grave e diffuso ed è ormai non questione di politica scolastica, ma questione prioritaria di ordine politico e amministrativo. Per favore basta, non ci prendete in giro! Siete sindaci, rappresentate per intero le comunità della nazione, non potete scaricare su altri compiti che sono in primo luogo vostri!
L’opinione di Leoni
«L’amore non è solo parole, ma servizio, un servizio umile, fatto nel silenzio e nel nascondimento». Non trovo niente di meglio che riflettere su queste parole di Papa Francesco quando assisto alle esibizioni di gente di potere, di cultura e di spettacolo amplificate dalla stampa e dalla televisione. Una dose di narcisismo è ingrediente della natura umana, ma di fronte alla valanga di banalità dalla quale siamo investiti, credo sia utile, dopo una fase inevitabile e salutare di indignazione, di fregarsene. Rinuncio a comprendere come i sindaci di due importanti città italiane, pressati dai problemi quotidiani che coinvolgono alcune centinaia di migliaia di loro concittadini, trovino il tempo non solo di dormire, ma di concepire iniziative di portata nazionale e, oserei dire, planetaria. Più umano e più commovente mi sembra l’atteggiamento dei sindaci di Roma e di Napoli che, di fronte al degrado delle loro città, resistono alla tentazione di ritirarsi a vita privata dando sempre la colpa agli altri.