Se tornassero loro …
di Franco Raimondo BarbabellaSe tornassero loro chi? No, non Craxi e Andreotti, né Moro Fanfani Ingrao Pertini Malagodi La Malfa Spadolini e Lombardi, e tanto meno (per lontananza temporale) Einaudi Parri Nenni Togliatti e De Gasperi. A proposito, chi se li ricorda?, se non per il fatto che alcuni di loro in modo ricorrente sono variamente oggetto di denigrazione, lo sport nazionale preferito di gran lunga su tutti gli altri. No, non loro, politici che hanno fatto la storia italiana del secondo dopoguerra, e nemmeno gli intellettuali che da diverse sponde hanno segnato la prima parte del secolo scorso (tipo Gobetti e Gramsci, Croce e Gentile, Carlo e Nello Rosselli, Enriques e Pareto, Salvemini e Calamandrei), ma quei personaggi di pensiero e di azione che nella seconda metà del Novecento hanno dedicato la vita a indicare prospettive per il loro popolo con una visione generale, una collocazione nella vicenda storica e nel contesto europeo e mondiale, gli Spinelli e gli Olivetti, e i Bobbio, i Calogero, i Capitini. Però, anche costoro, chi se li ricorda? Anzi, per la maggior parte, chi li ha mai conosciuti? E soprattutto chi si preoccuperà di conoscerli?
Ecco, i cinque nomi che ho appena citato a mo’ di esempio hanno delineato, certo insieme ad altri che per brevità non nomino qui (che ne so, Bruno Zevi, Visalberghi, e …), prospettive che, se attuate almeno in parte avendone comunque capito e adottato lo spirito, avrebbero permesso di collocare l’Italia tra le nazioni non solo più sviluppate ma anche più civili, quella tra tutte più capace di far rivivere nel mondo attuale la grande “civiltà della bellezza”, quell’Umanesimo-Rinascimento che fu faro per l’Europa tra Quattrocento e Cinquecento. Il fatto è che l’Italia odia i suoi maestri, quegli intellettuali che hanno interpretato il loro ruolo senza pretesa di santità ma facendo bene il loro mestiere, con la consapevolezza di una missione, dedicandosi più che a se stessi al destino della nazione.
Ecco, costoro, se tornassero, che cosa troverebbero oggi? Spinelli, la massima lontananza dalla prospettiva dell’Europa; Olivetti, lo spirito di comunità trasformato in interesse di bottega; Bobbio, il tradimento della democrazia del diritto; Capitini, il potere dei pochi, anzi dei pochissimi, spacciato come potere di tutti; Calogero, il dialogo sostituito da confusi strampalati monologhi ripiegati su se stessi.
Uno spettacolo deprimente, da vergogna. Piatti indigeribili non solo da palati raffinati, peraltro con condimenti che li rendono particolarmente sgradevoli: da una parte un’ignoranza crassa, antiscientifica, antieconomica, antilinguistica, praticamente anti tutto ciò che non è riconducibile all’interesse immediato della propria parte; dall’altra continui e diffusi tentativi di ignorare o falsificare la storia, di piegare ciò che è stato a interessi personali il più delle volte miserevoli.
Dunque, non solo operazioni di consapevole dimenticanza, ma operazioni di consapevole, voluta, falsificazione della realtà, funzionali ad operazioni di “damnatio memoriae” che vanno dai livelli nazionali a quelli locali e qui diventano particolarmente sfacciate e proterve perché chi li fa non può sperare nell’ignoranza degli altri ma solo nella loro eventuale infingardaggine o nel loro menefreghismo.
Un Paese conciato così e luoghi con queste tendenze non possono andare da nessuna parte. Invocare lo Stellone non serve più, è stato bevuto anche quello. Resta una cosa che, per quanto difficile e impegnativa, appare come l’unica degna di considerazione: tornare alla realtà e alla verità, alla serietà e alla lungimiranza, allo studio e alla competenza, alla passione disinteressata e alla capacità di visione. Tornare al passato per guardare al futuro. Ovvio, un certo passato, perché c’è passato e passato, come c’è futuro e futuro. Lo farà chi vorrà e potrà. Se non vincerà non importa, sarà comunque una semina, come volevano Bobbio, Capitini e Calogero, tre grandi tra i grandi dimenticati.
L’opinione di Leoni
“Loro” stanno bene dove stanno e non possono tornare, se non, stando alle profezie, nel giorno dell’ira, quando il mondo sarà ridotto in cenere ( Dies ìrae, dìes ìlla / Solvet seclum in favìlla, / Teste David cum Sybìlla). Restano i loro esempi, dei quali pochi si curano, mentre la massa ignorante va appresso a furbi demagoghi, incolti o semicolti, che sono abili nel parlare la sua lingua. Perché la massa ha perso la saggezza che consiste nel prestare umilmente ascolto agli intellettuali. Ma per prestare rispetto e ascolto agli intellettuali bisogna saperli individuare e distinguere quelli autentici da quelli fasulli. Ma la massa, frastornata da un mondo che si è complicato e impaurita dal tramonto di un tenore di vita che si dava per scontato, ha perso la bussola. Eppure gli autentici intellettuali sono dappertutto. Si annidano, umiliati e offesi, nella scuola, nella magistratura, nei giornali, nelle televisioni, nel web e perfino nella burocrazia e nella politica. Chi passa la vita nei campi, nelle officine, nei negozi e negli uffici non può studiare più di tanto. Deve affidarsi a chi legge, scrive e insegna. Deve rendersi conto che i demagoghi affrontano temi difficili con parole facili, mentre si è sempre saputo che quando un problema difficile sembra facile è perché non lo si è capito. Confido nel rinsavimento della massa e nella realtà che sta sputtanando i demagoghi.
Quando la legge è inutile
di Pier Luigi LeoniLe leggi sono sempre di più e sempre più aggrovigliate. Ciò è dovuto al fatto che la vita è sempre più complicata e che i conflitti reali o potenziali che la legge è chiamata a dirimere o a prevenire aumentano di giorno in giorno. Certo, il legislatore esagera nel legiferare e spesso lo fa maldestramente. Ma ciò fa parte della imperfezione umana. Cosicché spesso le diposizioni giuridiche fanno arrabbiare e qualche volta è meglio non rispettarle per evitare guai. Ma càpita anche che i legislatori possano fare tenerezza con la loro illusione di mettere ordine anche dove è impossibile o inutile. Si afferma, come esempio paradigmatico, che gli indigeni che abitano nella foresta non hanno bisogno di un codice della strada. Però abbiamo assistito a un servizio televisivo sui parcheggi pubblici intorno all’università di Napoli.
Professori, studenti e comuni cittadini si fermano per sostare nelle aree in cui è vietata la sosta, consegnano le chiavi delle auto ai parcheggiatori abusivi e pagano tariffe, sempre abusive, articolate secondo la durata della sosta. Chi parcheggia senza consegnare la chiave e pagare la tariffa, è multato dagli ausiliari del traffico comunali chiamati dai parcheggiatori abusivi. Evidentemente vi sono situazioni, anche al di fuori della foresta, in cui il codice della strada non solo è inutile, ma è anche a favore di chi ne abusa. I Napoletani ci fanno arrabbiare, ma, se facciamo come si deve un esame di coscienza, ci accorgiamo che difficilmente giungiamo a sera senza aver commesso qualche illegalità, soprattutto se giriamo in macchina o frequentiamo certi negozi, certi ristoranti e certi professionisti. Forse è il caso di vedere l’aspetto positivo del comportamento dei Napoletani, che è uno sberleffo alle autorità inefficienti e un invito a costruire parcheggi adeguati.
L’opinione di Barbabella
Si, la selva delle leggi complica solo la vita e non risolve i problemi. Serve solo a far vivere un sistema perverso di azioni giudiziarie e procedure che impegnano pletore di magistrati e di avvocati e che in gran parte si traducono in angherie per quei cittadini che si sforzano di comportarsi correttamente o almeno senza fare danni a sé stessi e agli altri.
Eppure, com’è chiaro fin dall’antichità e poi dal moderno giusnaturalismo, società vuol dire esistenza di norme che regolano i rapporti tra i suoi componenti. Non credo ci sia qualcuno che sensatamente possa aspirare al “bellum omnium contra omnes”. Però è davvero incredibile come al piano formale fatto di una pletora di leggi, leggine e regolamenti, corrisponda sempre più un piano reale fatto di contravvenzioni appunto alle leggi, alle leggine e ai regolamenti. Napoli è stata eletta da sempre, a torto o a ragione, a simbolo dell’idiosincrasia per le regole ma, come ognun sa, il fenomeno è diffuso e radicato, anzi, è uno dei tratti distintivi nazionali.
Io credo che il disordine della vita pubblica sia un problema e un danno per tutti e da tutti i punti di vista. Una città disordinata e sciatta è anche destinata al degrado culturale e sociale, soffre economicamente, fa sentire abitanti e visitatori autorizzati come minimo alla disattenzione e alla noncuranza se non a partecipare attivamente al degrado.
Si può rimediare? Io sono convinto che si può, anzi, che si deve. Ed è realistico? Si che lo è, ci sono esempi a iosa, certamente in molti paesi europei ed extraeuropei, ma anche in parecchie zone d’Italia. Non è questione solo di leggi e regolamenti, ma di abitudine al rispetto delle cose di tutti che deriva dal fatto che c’è chi costantemente e in modo imparziale quelle leggi e quei regolamenti li fa rispettare.
Facciamola finita di pensare e dire che tanto gli italiani sono fatti così, come se ci fosse un dna italiano della sciatteria e del malcostume. C’è invece solo l’intreccio delle convenienze se non peggio.
Tardani: “La rinnovata fiducia una responsabilità da condividere per rispondere alle aspettative della città”
ORVIETO –Venerdì 20 dicembre, nella Sala consiliare si è tenuto il consueto incontro tra la Giunta e i...