Con questo sistema elettorale abbiamo toccato il fondo. Risaliamo o scaviamo?
di Pier Luigi LeoniNelle democrazie rappresentative non vi sono leggi elettorali che possano garantire l’uscita dalle urne di un governo bell’e fatto. Addirittura non vi sono leggi elettorali che possano garantire che dalle urne non venga fuori un governo autoritario. Nella storia s’è visto di tutto. Ma le leggi elettorali possono favorire il risultato della governabilità. I Comuni italiani sono stati stabilizzati da una felice legge elettorale. Le Regioni, da questo punto di vista, si sono abbastanza aggiustate. Invece il parlamento ha pasticciato con le leggi che disciplinano le elezioni nazionali.
È opinione molto diffusa che la classe politica tema che un partito o una coalizione di partiti possa governare senza tanti condizionamenti e compromessi. La legge elettorale vigente sembra confermare questa opinione. Ma se chi ha votato quella legge voleva raggiungere l’effetto di un parlamento costretto al compromesso, ha maldestramente ecceduto. Come quel tale che si raccomandava a Sant’Antonio per riuscire a salire sull’asino, ma oltrepassava la groppa dell’animale e cadeva a terra dall’altra parte esclamando: «Troppa grazia, Sant’Antonio!»
Ecco, siamo col sedere a terra, costretti ad ascoltare i battibecchi inconcludenti dei politici e a leggere le fantasie inutili dei giornalisti, per non parlare degli sfoghi degli elettori sui social network. Abbiamo toccato il fondo e qualsiasi governo ne verrà fuori sarà la certificazione della assoluta necessità di una saggia legge elettorale. Si dice che, toccato il fondo, non resta che risalire. Ma si dice pure che si può essere costretti a scavare.
L’opinione di Barbabella
Io la questione dello stallo della situazione politica e delle contumelie cui siamo costretti ad assistere la ridurrei a questo schemino:
la distruzione (in gran parte autodistruzione) della classe politica della cosiddetta prima repubblica è avvenuta avvalendosi di una ideologia purista e giustizialista ben interpretata da una parte dalla Lega separatista (assalto a “Roma ladrona”) e dall’altra da Di Pietro con il susseguente dipietrismo;
il popolo è stato abituato a pensare, da parte dei molti soggetti che nel crollo del sistema dei partiti hanno visto la loro occasione di ascesa, che la via della purificazione e dell’instaurazione del regime dell’Eden potesse essere percorsa andando per le spicce: bastava abbattere la Casta (identificata con i soggetti più facili da colpire, anche per loro diretta responsabilità, cioè “i politici”, naturalmente senza ulteriori distinzioni); il libro di Rizzo e Stella con l’omonimo titolo ne ha colto perfettamente il senso e il bisogno;
chi ha saputo interpretare alla svelta e meglio di altri il montante clima di cambiamento giustizialista è stato il Movimento 5 stelle che, nato con il Vaffaday di Grillo, ha saputo abbinare ideologia giustizialista, organizzazione simil-leninista ed efficienza comunicativa (superando così tutti i tentativi precedenti) ed ha ottenuto quell’ascesa di consenso che la pone oggi come la prima forza parlamentare;
la presenza del terzo soggetto politico competitivo ha sconvolto le strategie degli altri due (miserevole fine del progetto bipolare veltronian-berlusconiano), che hanno pensato bene di fermare l’ascesa di M5s non tanto con una politica di riforme radicali di grande respiro, quelle che il Paese attende per diventare competitivo in Europa e nel contesto globale come altri sanno fare da tempo, quanto piuttosto prima con un’alleanza sottobanco con logica di sopravvivenza e poi ingaggiando una lunga lotta per una riforma elettorale che, dovendo essere per forza di compromesso e avendo alle spalle la bocciatura delle riforme istituzionali del 4 dicembre, non poteva che essere un papocchio come quelle degli ultimi vent’anni e passa.
Come si vede, le leggi elettorali appartengono al complesso mondo della politica, cioè non sono un fatto di tecnica giuridica elettorale (poi ci sono quelle che sono pessime anche da questo punto di vista).
Diciamolo: quando si è trattato di varare la nuova legge c’è chi ha fatto la voce grossa e non l’ha votata, ma nessuno ha fatto le barricate, avendovi visto il proprio singolare vantaggio, la propria possibilità di successo. Lo testimoniano i comportamenti e gli argomenti adottati poi in campagna elettorale: tutti hanno chiesto voti nell’assunto di poter governare da soli, pur sapendo di farlo sulla base di un sistema di fatto proporzionale che non avrebbe permesso a nessuno di avere la maggioranza e quindi costretto chiunque avesse ottenuto più voti al compromesso con chi ne avesse ottenuti di meno. Una logica propagandistica da sistema maggioritario in contrasto con la logica proporzionale del sistema in vigore. Una follia. Di qui lo stallo.
Finché si continuerà ad inseguire la soluzione dei problemi politici con tecniche giuridiche di presunta efficienza non si caverà un ragno dal buco. D’altronde io sulle leggi elettorali dei comuni e delle regioni la penso in modo leggermente diverso da Pier Luigi. Riconosco che queste istituzioni hanno oggi una stabilità maggiore che nel passato, ma questo, come dimostra l’esperienza, non garantisce affatto, né potrebbe se ci riferissimo solo alla legge elettorale, maggiore qualità della classe politica e nel contempo maggiore efficienza ed efficacia di governo.
Francamente nel panorama attuale non vedo statisti in ascesa, tali da ragionare avvalendosi di disegni riformatori meditati e lungimiranti, capaci di mobilitare le migliori energie della nazione sulla percezione di un evidente interesse generale. Solo in questo caso si potrebbe pensare che venga fuori la proposta di quella “saggia legge elettorale” di cui parla Pier. Però, poiché non è vietato sognare, magari anche di questo si può nutrire speranza.
D’altronde non è forse vero che l’Italia per risolvere i suoi problemi si è affidata spesso, più che alla saggezza dei suoi abitanti e dei suoi rappresentanti, al suo stellone? E poi, ad essere ottimisti fino in fondo, al limite del sogno, come dico nel mio elzeviro, possiamo anche credere che è davvero iniziato il “ravvedimento operoso” delle classi dirigenti, quelle stesse che nel loro furbismo hanno coltivato in seno la serpe velenosa che, rischiando di mordere tutti (di cui a loro non può fregar di meno) rischia anche di mordere loro stessi (di cui gli frega assai).
Pare sia iniziato il “ravvedimento operoso” del sistema d’informazione pentito dei disastri cui stiamo assistendo
di Franco Raimondo BarbabellaDomenica 22 aprile Sergio Fabbrini, politologo di fama, ha scritto sul Sole 24 Ore che “i partiti più votati alle elezioni sono in uno stallo … dovuto al fallimento di una precisa strategia politica. Ovvero all’idea che basta cambiare i politici per cambiare la politica.” È il fallimento della strategia anti-Casta, quella che io più volte, anche in questa rubrica, ho definito strategia del “levate te che me ce metto io”, prassi strisciante nei decenni scorsi sia al centro che in periferia, diventata poi vera e propria ideologia negli ultimi anni.
Non ci voleva molto a capire che sarebbe stato un fallimento: se cambi solo l’autista e lasci immutata la macchina, come puoi pensare che, oltre forse a veder evitata qualche buca, vedrai anche aumentata la cilindrata, migliorati i sistemi di sicurezza e resa più bella la carrozzeria? Ma c’è di più: se l’autista viene cambiato andando un po’ per le spicce, più col metodo del “n’do cojo cojo” piuttosto che con una selezione attenta ai criteri di competenza e di affidabilità, che cosa ci si può aspettare se non prestazioni scarse, il fermo-macchina o il pericolo di andare a sbattere?
Eppure quella strategia è stata invece coltivata per anni e anni proprio da pezzi importanti e vasti di quella stessa Casta che gli anti-Casta volevano abbattere. Sembra paradossale ma non lo è. Una parte tutt’altro che secondaria del potere reale ha coltivato l’idea che fosse vantaggioso incoraggiare lo smontaggio del sistema nell’illusione che poi, al dunque, tutto sarebbe stato riportato sotto controllo con tangibili benefici. Ma, come accade al domatore di serpenti che si accorge del pericolo solo quando arriva a baciare il suo cobra, così il potere reale, che in gran parte coincide con il sistema d’informazione, sembra accorgersi dei pericoli che corre la nazione solo ora, a cose quasi fatte.
Così lo stesso Fabbrini denuncia che “La strategia dell’anti-Casta è stata formidabilmente promossa da giornalisti e opinionisti (dei principali quotidiani nazionali e reti televisive)”, con grandi vantaggi, se è vero che “La denuncia della Casta ha consentito di incrementare le vendite dei quotidiani, di alzare gli indici di ascolto delle trasmissioni televisive, di soddisfare il narcisismo di accademici o esponenti dell’establishment in cerca di facili applausi”. Il guaio però è che, dice sempre Fabbrini, “il letame è stato spazzato via dalla stalla, ma la democrazia italiana è più che mai bloccata”. In realtà l’unica cosa certa è la seconda, ché sulla prima c’è più di qualche dubbio.
E allora? Allora gli strateghi sostenitori dell’anti-Casta pare si stiano ora impegnando in quello che Maurizio Crippa ha definito sul Foglio di qualche giorno fa “Il ravvedimento operoso dell’informazione”. Così, il direttore del Corriere della sera si schiera con Fabbrini per una riforma elettorale con doppio turno alla francese per garantire la governabilità (parola magica, come si sa) e Paolo Mieli, tra tutti sempre il più svelto a interpretare il vento che tira, sottolinea la responsabilità dei giornali, compresi quelli da lui diretti, nel non avere esercitato “un ruolo di riflessione e guida”, o forse, mi chiedo, di averlo esercitato alla rovescia, nel lungo periodo degli ultimi 25-30 anni (popò!).
Dice Mieli: “Le responsabilità sono enormi e sono: a) di non aver capito per tempo; b) di aver pensato che alcuni fenomeni si potessero assecondare perché tanto poi …”. In sostanza “lo stesso errore che fecero le classi dirigenti nel 1922-1925. Pensavamo ‘ma si, lasciamo che la società civile si esprima, e poi ci penseremo noi che siamo forti, potenti, e con le idee chiare a ricondurre questi movimenti alla ragione’. Neanche per sogno” (aripopò!). Ah, quanto aveva ragione Gramsci a parlare di “rivoluzione passiva” delle classi dirigenti!, e oggi dovremmo dire piuttosto la loro irresponsabilità continuata e aggravata.
Se è così, come non arrabbiarsi di brutto? Perché va bene il “ravvedimento operoso”, ma i buoi sono già scappati dalla stalla. Lo spettacolo dei veti incrociati e i corrispondenti “niet” incrociati delle rispettive tifoserie sui social è la rappresentazione del disastro, culturale e sociale prima che politico, favorito appunto da un sistema di informazione che ha abbondantemente lucrato sull’esasperazione popolare. Si è alimentata l’antipolitica più grezza, si sono sdoganate le più fetide schifezze, si è fatta pensare legittima ogni affermazione purché estrema, eclatante, non importa se vera o falsa.
La cosa importante è diventato sempre più fare clamore, cosicché informare (cioè la missione propria) si è ridotta a cosa quasi casuale. Non a caso tutti si sentono autorizzati a tutto. Le schifezze di questi giorni (gli insulti a Giorgio Napolitano, i fischi ai superstiti ebrei dei campi di concentramento nazisti, i giochi per bambini di bastonate e caramelle con il feticcio del duce) ne sono solo la dimostrazione estrema più recente. Una pena.
Io spero comunque che il “ravvedimento operoso” ci sia davvero, che vada avanti e produca effetti, perché i danni fatti sono già gravi e quelli che si annunciano è probabile che non lo siano di meno. Parlo della tenuta e dello sviluppo del sistema democratico che, va ricordato ai numerosi immemori, non è stato un regalo ma una dura conquista. Come mi auguro che vada avanti e produca effetti quanto annunciato dalla Commissione europea circa l’obbligo della stretta dei social sulle fake news.
Vedremo. A me pare però, in particolare in questi giorni in cui mi sto occupando del pensiero di Aldo Capitini, che c’è bisogno di un cambiamento nel cambiamento, di una ricostruzione, di una rivoluzione. Sapendo che la vera rivoluzione ci può essere solo con la mobilitazione delle coscienze, con l’esercizio concreto e giornaliero delle responsabilità civiche, in ogni luogo e in ogni occasione. Una società educante, un sogno. Ma senza sogni non si vive.
L’opinione di Leoni
Società educante comporta un grosso impegno dei politici, degli intellettuali, della scuola, delle famiglie e degli individui. Non dico che oggi non ci sia un po’ d’impegno, altrimenti la società nazionale si sarebbe già disgregata. Ma perché questo impegno cresca in tal guisa da contrastare più efficacemente la demagogia e la corruzione dei politici, la vischiosità della burocrazia, la superbia e la pigrizia della magistratura e le altre piaghe che affliggono l’Italia credo che ci sia bisogno di un ritorno al reale. Cioè che ad ogni livello si prenda atto che il mondo attuale ha relativizzato la sovranità nazionale; che non esiste un sistema per liberarsi dei debiti se non pagandoli, oppure dichiarando fallimento e sottoponendosi alla dura disciplina dei curatori fallimentari; che le mafie non si affrontano con leggi ordinarie; che la costituzione è invecchiata e che le leggi sono troppe e tecnicamente scadenti; che la magistratura applica l’obbligatorietà costituzionale dell’azione penale decidendo a suo arbitrio quali reati perseguire, anche con accanimento ed enorme spesa, e quali ignorare, insabbiare e far prescrivere. Confido che un ritorno al reale sarà imposto dalla stanchezza generale delle chiacchiere. Solo la stanchezza potrà dare lucidità per ascoltare le voci delle persone serie, che, se stiamo bene attenti, ci sono. E allora potremo riapprezzare e adeguare al presente quella geniale canzonetta di Rino Gaetano: nun te reggae più.
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