Scommetto che il nuovo parlamento camperà a lungo
di Pier Luigi Leoni
Mi sforzo di disinteressarmi, approfittando della pausa istituzionale, delle disquisizioni sulle prospettive della formazione o meno di una maggioranza parlamentare. Ma non ci riesco. Nessuno sa come andrà a finire, ma tutti chiacchierano, me compreso, e compilano le proprie schedine ideali con la speranza di fare tredici e incassare il simbolico premio di poter dire agli amici: «Io ve lo avevo detto!»
Il clima pasquale mi ammorbidisce il cuore e m’induce a uno slancio di umana comprensione. Cerco così di mettermi nei panni dei 945 parlamentari che, da quasi un mese, gioiscono nel loro cuore per aver conquistato, o riconquistato, un seggio nel parlamento di una democrazia da 60 milioni di abitanti. E con loro gioiscono centinaia di mogli e di mariti, di fidanzate e di fidanzati, e migliaia di familiari. Per quel poco o tanto che conosco del cuore dell’uomo, ogni gioia porta con sé una punta di veleno. Non c’è rosa senza spine. Mi sembra di intuire che la stragrande maggioranza dei neoeletti temano che l’orgoglio, la megalomania, l’avventurismo, l’incoscienza di alcuni di loro li portino a dover presto rinunciare a cinque anni di pacche sulle spalle, di buoni stipendi, di apparizioni in televisione e di invidia dei primi della classe che sono rimasti indietro a rodersi.
Non posso fare e meno di pensare che il nuovo parlamento agisca da condensatore di questa tensione tra la gioia e la paura e sprigioni un livello di energia sufficiente per alimentare e garantire l’autoconservazione di entrambe le camere.
Coloro che vediamo agitarsi indaffarati o sedere pensosi nelle aule parlamentari sono esseri umani, e non pedine inanimate di un partita a scacchi le cui regole sono, in fondo, meno complicate di quanto i cosiddetti esperti vorrebbero farci credere.
L’opinione di Barbabella
Non so se la generosità pasquale di Pier Luigi reggerà alla prova delle dinamiche parlamentari, dati i tre elementi in gioco che al momento sembrano bloccare soluzioni di governo ancorate ad un po’ di buon senso e ad una minima consapevolezza del bene collettivo. Si tratta: 1. delle posizioni politiche oggettivamente confliggenti che le formazioni in lotta hanno assunto per acchiappare il consenso; 2. delle ambizioni sia dei leader apparentemente vincenti e dominanti sia di quelli apparentemente sconfitti e liquidati; 3. dei numeri che definiscono in modo meno manovrabile del solito la geografia parlamentare. Sono tre elementi non facili da gestire nemmeno mettendo in campo la grande tradizione bizantina e la propensione al trasformismo ben presente in entrambe le camere.
L’unico elemento che al momento mi pare abbastanza nuovo e che potrebbe far pensare che una qualche soluzione pur se rabberciata alla fine si troverà, è l’estrema spregiudicatezza dei dirigenti dei due gruppi che dicono di aver vinto perché in effetti hanno ottenuto chi più voti degli altri e chi più voti dentro la propria coalizione. Ma anche di questo aspetto devo dire che non saprei essere sicuro che basti a rabberciare un decente accordo sulle cose da fare che possa giustificare agli occhi dei reciproci elettori la rinuncia alle fantasmagoriche promesse che li hanno convinti a dare il consenso. Soprattutto, non mi pare che Salvini sia disposto a fare il secondo di Di Maio e viceversa, né mi pare che i numeri siano facilmente stirabili.
Due settimane fa parlavo di leader che si erano ingabbiati da soli. Non ho cambiato opinione. Hanno giocato con l’insipienza degli altri e con l’incazzatura di un’enorme quantità di italiani. Siamo al punto che gli italiani, essendosi stancati delle bugie di chi ha governato negli ultimi decenni, ora sembra che debbano disporsi a credere alle bugie dei nuovi padroni del vapore. Dopo la sceneggiata del viaggio in autobus elevato sui social a simbolo della nuova rivoluzione, l’intervista di oggi (sabato) al Fatto quotidiano del nuovo presidente della Camera la dice lunga sullo stile istituzionale che diventerà “normale”: niente neutralità, niente gestione al di sopra delle parti, al contrario azione di parte senza alcuna preoccupazione che appaia come tale. E sui social, mentre imperversa la gara a ritenersi esentati dal leggere la Costituzione, non si ha alcun timore di affermare diritti inesistenti citandone impunemente gli articoli. Ecc. ecc.
Ripeto, non so proprio orientarmi, ma mi sembra anche inutile. Affidiamoci al presidente Mattarella, alla sua saggezza e alla sua competenza, ma non so quanto servirà. Il popolo sovrano non è stato sovrano fino in fondo e non si possono chiedere miracoli a Mattarella. D’altronde la democrazia parlamentare ha le sue regole, e meno male! C’è chi vorrebbe comandare senza averne i numeri, ma almeno a questo ancora non siamo arrivati. Vediamo, ma non mi pare che stiamo andando in paradiso.
Allontanarsi dalla ricerca e dalla conoscenza della storia incentiva il degrado culturale e sociale.
di Franco Raimondo Barbabella
Seneca ha scritto che noi siamo padroni solo del passato, giacché il futuro ancora non c’è, non sappiamo se e come sarà e comunque non dipende solo da noi. Ma essere padroni del passato non vuol dire solo che ci dobbiamo impegnare a crearlo nel presente (di qui la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni), vuol dire anche rispettarlo per come è effettivamente e dunque interpretarlo con onestà intellettuale, darne cioè interpretazioni non arbitrarie, non farne uno strumento per le nostre personali ambizioni.
Da qui trae senso il lavoro dello storico, che analizza il passato con gli strumenti della ricerca, consentendoci così di andare alla radice degli accadimenti e dei modi di essere del presente del mondo. Lo storico rispetta idee, personaggi, fatti e contesti, cerca di capire e di far capire. Per suo verso e conseguentemente, la conoscenza della storia ci permette non solo di allargare la nostra visione del mondo ma di affondare lo sguardo oltre la scorza e, come dicevano Machiavelli e Guicciardini, di raggiungere le “medolla” delle cose.
Fa invece un cattivo servizio alle persone e alla vita civile chi si industria a falsificare i fatti spiegando il passato a proprio uso e consumo e presentandolo poi come storia. Fa anche un cattivo servizio chi chiude gli spazi della ricerca e della conoscenza. Parimenti fa danni chi non distingue e non abitua a distinguere i fatti dalle opinioni. È questo però ormai un costume diffuso. Non solo non si studia ma non si rispettano né i fatti né la storia. E le conseguenze si vedono.
Possiamo scegliere tra molti esempi. Eccone uno. Domenica 25 marzo Massimo Bucciantini, nel recensire su “Domenica” de “Il Sole 24 Ore” la pubblicazione del “Commentario filosofico sulla tolleranza” di Pierre Bayle a cura di Stefano Brogi, ha scritto: “Non c’è dubbio però che l’educazione alla tolleranza e alla conoscenza storica sia uno degli antidoti più potenti contro la violenza e il fanatismo ideologico e religioso dei nostri tempi”. Si riferiva al fatto che in Olanda (e non solo lì ovviamente) si è messa da parte la conoscenza dei maestri del pensiero critico moderno, come ad esempio Baruch Spinoza e appunto Pierre Bayle, e si è visto come sia esploso il fanatismo più feroce in una terra che storicamente è stata un esempio di tolleranza e di libertà. Non sarà stato solo per questo, certo, ma questo ha di sicuro aiutato a mettersi in discesa.
Più sotto lo stesso Bucciantini fa opportunamente notare come in Italia “dalla Riforma Gelmini in poi, l’insegnamento della storia ha un ruolo sempre più marginale nei programmi scolastici, con guasti irreparabili sulle nuove generazioni. Oggi nelle scuole di ogni ordine e grado siamo di fronte a un’autentica dealfabetizzazione della storia”. Un giudizio pesante e giustamente allarmato.
Ma ancor più pesante e allarmato era stato quello di Mariangela Caprara in un piccolo ma denso saggio pubblicato il 25 settembre 2017 su “Il Mulino online” con il titolo “Il naufragio della storia nella scuola italiana”. Eccone un passaggio: “Una mistura confusa di verità e immaginazione viene così a caratterizzare il rapporto dei giovanissimi (e ormai anche di molti giovani adulti) con i fatti storici, e con la dimensione del fatto in generale, distinto dall’opinione o dalla credenza. Come l’affievolirsi della vigilanza sulla verità storica e sulla verità in generale abbia permesso al sistema dell’informazione, potenziato dall’uso dei social network, di degenerare, trascinando con sé anche la sfera della politica, è un fatto che non può passare inosservato.” Naturalmente poi l’inefficacia dell’insegnamento scolastico da una parte potenzia le disuguaglianze sociali e dall’altra ostacola l’integrazione degli immigrati, nello stesso momento in cui questi sono presentati come mali da vincere.
Come si vede, le cause di quel complesso di accadimenti non casuali che ci danno la netta sensazione di un montante degrado ideale e morale, e che di fatto ci cambiano la vita come non vorremmo piuttosto che come desidereremmo, sono profonde e complesse. L’allontanamento dalla storia, con la sottovalutazione del suo valore formativo e civile, in questo decadimento non è il tutto ma di certo una parte essenziale si. Purtroppo si deve constatare che non sono questi i discorsi che interessano, però almeno si sappia che sono questi i discorsi che contano.
L’opinione di Leoni
«Giorno dell’ira, quel giorno che dissolverà il mondo terreno in polvere, come annunciato da David e dalla Sibilla… [Dies irae, dies illa / solvet saeculum in favilla / teste David cum Sybilla]»
Niente oggi è tanto fuori moda quanto questo canto medievale, tremendo e ammonitore, che però contiene un abbandono alla speranza della misericordia divina.
Il nihilismo, cioè la convinzione di una parte degli scienziati e dei filosofi che la vicenda cominciata col bing bang finirà con un botto che manderà in fumo la banale avventura dell’universo, è penetrato come un veleno sottile nelle masse occidentali.
Credo che questa mentalità molto diffusa abbia fatto crollare l’interesse per la storia. Nemmeno l’orgoglio di essere gli eredi di grandi civiltà riesce a sostenere l’interesse per la storia. Senza andare lontano, basta osservare con quanta superficialità gli orvietani coltivano la conoscenza del proprio passato, pur vivendo tra memorie e monumenti che dovrebbero essere stimolanti. E sebbene a tutti siano fornite da decenni scuole pubbliche con docenti di storia.
Questo disinteresse popolare per la storia, che le istituzioni scolastiche finiscono supinamente con l’agevolare, si accompagna, anzi è stato preceduto dall’abbandono della geografia. Come si può essere affascinati da un pianeta come ce ne possono essere tanti, per di più malaticcio e pieno di bombe? Come ci si può appassionare allo studio delle vicende di popoli che si lavavano poco, erano quasi sempre in lite e non erano riusciti a inventare un oggettino semplice e indispensabile come il telefonino? Che vita era senza telefonino? La storia viene oggi percepita come il brusio inutile ed effimero di sciami d’insetti.