Per la democrazia vale ancora la pena lottare. Ma chi lo dice a Dacia?
di Franco Raimondo Barbabella
Lo scorso 19 marzo il Washington Post pubblicava l’articolo-manifesto per “una nuova democrazia” con cui Davide Casaleggio riassumeva la base ideologica e politica di quello che dopo le elezioni del 4 marzo è diventato il primo partito italiano (la trasformazione da movimento a partito è nelle cose: un movimento che lotta per il potere, si inserisce nelle istituzioni e le vuole gestire per realizzare il suo programma, è un partito anche se lo nega).
Tralasciamo tutto il resto: le molte ambiguità ormai caratteristica dei 5stelle, l’associazione Rousseau che da azienda privata con ovvi fini di lucro di fatto dirige un movimento-partito che dovrebbe governare nell’interesse generale senza fini di lucro, un proprietario d’azienda che si pone come soggetto pubblico e opera delegittimando gli altri senza essere stato a sua volta legittimato, ecc. Tralasciamo questo, che anche dal manifesto suddetto emerge con chiarezza, perché la cosa del manifesto che appare più rilevante sono le sue affermazioni circa la democrazia.
Eccole in sintesi: “la democrazia diretta, resa possibile dalla rete, ha dato una nuova centralità del cittadino nella società”; “le organizzazioni politiche e sociali attuali saranno destrutturate, alcune sono destinate a scomparire”; “la democrazia rappresentativa, quella per delega, sta perdendo via via significato, e ciò è possibile grazie alla rete”.
Fermiamoci qui, è sufficiente, ma preme rilevare due aspetti:
1. viene ribadito che obiettivo centrale dei 5stelle è il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella diretta con la destrutturazione dei corpi intermedi, quelli che assicurano l’equilibrio e il governo ordinato delle società complesse;
2. Viene contestualmente riaffermato il ruolo centrale della rete come strumento di governo della democrazia diretta, senza gerarchie in base al principio uno vale uno.Nello stesso giorno in cui il Washington Post pubblicava il manifesto di Davide Casaleggio si diffondeva la conferma di come i social network si prestino a trasformare il loro potenziale di libertà e di democrazia popolare nel suo contrario, la manipolazione a fini sia privati che politici della volontà popolare. Si tratta della connection Facebook/Cambridge Analytica, l’uso spregiudicato e illegale di milioni e milioni di dati personali prelevati senza autorizzazione e usati a fini commerciali ed elettorali. Il potenziale di libertà e democrazia che si trasforma nel suo contrario, da uno vale uno per cui tutti uguali al comando assoluto di chi detiene la proprietà e il controllo dello strumento. La manipolazione della volontà popolare a fini commerciali e politici. La democrazia che diventa privilegio.
Potrebbe forse insegnare qualcosa (a chi?) quello che fa il presidente cinese Xi Jinping per compattare la Cina capitalcomunista verso nuove conquiste: controllo ferreo di Internet e insieme divieto di circolazione della “Fattoria degli animali” di George Orwell. In ogni caso dovrebbero essere tenuti in considerazione (da chi?) fatti già accaduti: interferenze di Vladimir Putin nei processi elettorali delle democrazie occidentali, elezione di Donald Trump alla presidenza statunitense, vittoria della Brexit. E, appunto, il trionfo italiano a cinque stelle. A causa della rete? No, certo, non solo, ci sono problemi sociali, culturali, contingenti e strutturali. Ma la rete di per sé non garantisce nulla, anzi è strumento manipolabile forse come e più di altri.
Dunque il punto centrale su cui occorre riflettere (da parte di chi pensa che la democrazia sia il bene più prezioso, fondamento di ogni sicurezza, di ogni garanzia, di ogni benessere possibile, in una società moderna complessa) è il seguente: è possibile la democrazia senza intermediazione, senza gerarchie e senza libere elezioni di rappresentanti in organismi delegati per legge a prendere decisioni per tutti nell’assunto di beni comuni (umani, sociali, naturali) da difendere, affermare e promuovere?
Oggi questo tema non sembra interessare a molti, troppi. Ho parlato con giovani che se ne fregano del fatto che una società privata non autorizzata da nessuno gestisca le decisioni di un movimento che potrebbe, una volta al governo, prendere decisioni per conto di tutti. Non capiscono nemmeno di che cosa si parla. Sono più interessati, ed è un atteggiamento che non stupisce, all’eliminazione di privilegi che fanno scandalo e che indicano le responsabilità di classi dirigenti prepotenti e miopi. Ho parlato con parecchie persone adulte a cui questo pare un tema del tutto secondario: altre, dicono, sono le preoccupazioni. Tutto comprensibile, ma certo tutto preoccupante.
Soprattutto, è preoccupante la responsabilità del ceto intellettuale, di alto o di basso lignaggio, che ha confermato in questi ultimi decenni e nell’attuale frangente storico, in generale e perciò come sempre anche con le dovute eccezioni, la deprimente e storica propensione al compromesso in vista di stabili o anche solo provvisori vantaggi e onori. O per insipienza e presunzione. Non so se Dacia Maraini possa essere annoverata tra coloro che hanno tenuto questo atteggiamento, e mi auguro di no. Però il suo articolo sul Corriere della sera di martedi 20 marzo intitolato “Noi complici (forse) inconsapevoli” è comunque indicativo di un modo di pensare e di agire che lo rende oggettivamente complice, consapevole o no, del degrado democratico che stiamo sperimentando se non dovesse essere seguito da una reazione.
Dice Maraini: “Insomma la democrazia è complicata e fragile. Basta poco per trasformarla in larvata tirannia o in una oligarchia camuffata da democrazia. … Complici? Forse inconsapevoli ma certo in parte complici del mal governo”. E di fronte all’affermazione di alcuni studenti che ciò che deve caratterizzare il buon governo è, insieme a chiarezza e trasparenza, anche meritocrazia e controllo, afferma: “Basterebbe un poco più di controllo per fermare l’evasione fiscale, gli abusi, per garantire che i più forti non mettano i piedi in testa ai più deboli. La democrazia lo permette”.
Già, ma in tutti questi anni, è proprio ciò che non si è fatto. Per i controlli lasciamo perdere. Per la meritocrazia ci sarebbe solo da ridere se non fossimo costretti a piangere. Loro dov’erano? Chissà che Dacia Maraini, giunti a questo punto, non sia interessata a iniziare una reazione organizzata allo sfascio della democrazia in nome proprio di quelle esigenze di buon governo che una parte dei giovani sembra invocare nonostante le sirene dell’estremismo attualmente vincente! Per la democrazia, quella vera, vale ancora la pena lottare, qualcuno dovrebbe dirglielo. Ma chi?
L’opinione di Leoni
Non c’è dubbio che con internet bisogna fare i conti. L’evoluzione degli elaboratori elettronici s’è incrociata e combinata con quella dei satelliti artificiali e le informazioni corrono a enorme velocità in tutto il mondo. Le istituzioni politiche si devono adeguare, così come la scuola, la stampa e le aziende pubbliche e private. Per chi non è più giovane è impressionante constatare come dei bimbetti che ancora non sanno articolare un discorso smanettano sugli aggeggi elettronici. Non molti giorni fa il Corriere della Sera ha pubblicato una foto inquietante: seduti davanti al vicesegretario del PD, onorevole Martina, che stava tenendo la sua relazione, tutti o quasi i membri della direzione erano chinati sui loro cellulari.
È inutile che gl’insegnanti boicottino i telefonini; è inutile che i presidenti delle Camere s’infastidiscano perché gli onorevoli e i senatori s’informano di ciò che sta accadendo non ascoltando i relatori, ma muovendo la dita sugli schermi dei cellulari. I discorsi prolissi e complicati sono ormai diretti alla maggioranza che non parla il linguaggio di internet: una maggioranza che è destinata a diventare minoranza fino a scomparire. Internet richiede un linguaggio stringato, che utilizza sempre più espressioni di un sottoprodotto della lingua inglese, acronimi misteriosi per i più e disegnini chiamati emoticon. Internet richiede velocità. Il linguaggio della rete tende a riprodurre la velocità del pensiero, che è molto superiore a quella della parola; non solo, ma tende ad adeguarsi alla velocità del pensiero artificiale, che è molto superiore a quella del pensiero umano.Ma tutto ciò è a discapito della riflessione e del dialogo, le doti della mente umana che consentono alla razionalità di non essere annientata dall’emotività. Quando la comunicazione non verbale, come, ad esempio, l’espressione della faccia e l’inflessione della voce, viene sostituita dagli emoticon, gli esseri umani non potenziano, ma deprimono le loro doti mentali. È questo il pericolo della nostra epoca, che non riguarda solo le istituzioni politiche, e che è più minaccioso per la metà dell’umanità che vive in regimi democratici. Infatti, per la metà che vive in regimi autoritari, è più facile difendersi dalla dittatura della rete. Come dimostra la Cina popolare nel servirsi di alibaba, il sito commerciale che contrasta il monopolio dei siti occidentali. Ma è solo questione di tempo. Il mondo libero è più lento, ma dovrà provvedere. Quanto alla politica italiana, penso che la democrazia diretta elettronica sia una trappola pericolosa anche per il Movimento 5 Stelle, che forse si sta già rendendo conto che si tratta di una democrazia emotiva, sotto l’apparenza della modernità e della razionalità. Il modo ambiguo e contraddittorio con cui sono state formulate le candidature del M5S alle elezioni politiche rivela una fifa maledetta del web.
A Walter, ma che stai a di’?
di Pier Luigi Leoni
Walter Veltroni, nell’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo (Corriere della Sera del 18 marzo 2018) sostiene che la recente sconfitta della sinistra in Italia è dovuta al fatto che essa ha perso il rapporto col popolo. «Senza il popolo non esiste la sinistra… Il Pd dovrebbe stare dove c’è più disagio, più povertà, più disperazione, più angoscia; la vera questione oggi è questa: come si interpreta il punto di vista della sinistra, che è sempre esistito? La sinistra non è nata coi parlamenti; è nata con la rivolta degli schiavi. C’è sempre stato nella storia umana un sentimento, un punto di vista della sinistra: sempre dalla parte dei più deboli, nei suoi momenti migliori armonizzando libertà e giustizia sociale, nei momenti peggior separandoli». Insomma i “buoni e i giusti” sono di sinistra, i cattivi e gli ingiusti sono conseguentemente gli altri.
Sennonché il partito che oggi ha più a cuore i poveri, i disagiati e i disperati, contendendoseli col volontariato cattolico e laico, è Casa Pound, che non mi pare un partito di sinistra. Direbbero a Roma: «A Walter, ma che stai a di’?» C’è poi l’accenno di Veltroni al fatto che, nei suoi momenti peggiori, la sinistra non è riuscita ad armonizzare libertà e giustizia sociale. Che vuol dire? Che quella di Stalin, di Mao, di Pol Pot era giustizia sociale non armonizzata con la libertà, e non brutale oppressione dei popoli da parte di caste criminali? Certo, c’è anche la socialdemocrazia, ma non si può dire che essa sola rappresenti i buoni e persegua il bene; ma si tratta piuttosto di una delle forme di governo che, in alternanza con la liberaldemocrazia, e collaborando con essa, può dare un equilibrio agli Stati più progrediti. Sono le fisime ideologiche alla Veltroni, e la supponenza che ne consegue, a rendere antipatica la sinistra ai lavoratori torchiati dal fisco, che l’abbandonano, e ai disagiati che cercano rifugio nei demagoghi.
L’opinione di Barbabella
Confesso di provare una certa tristezza a dover constatare che gente come Veltroni non riesce a trarre dalle sconfitte elettorali l’elementare conclusione che le proprie idee cozzano con la realtà. Egli continua ad inquadrare gli eventi in schemi precostituiti come gli hanno insegnato da qualche parte: ci sono i buoni (che siamo noi, ma noi chi?) e ci sono i cattivi (che sono loro, quelli lì, sempre quelli lì, ma loro chi?). Nella storia ci sarebbe stato sempre un sentimento di sinistra, sempre dalla parte dei più deboli.
Si, certo, c’è sempre stato chi si è messo dalla parte dei deboli e dei sofferenti, ma che c’entra questo con la definizione di sinistra? Come se la sinistra storicamente sia stata una posizione sentimentale, una disposizione dell’animo, e non invece una posizione politica nata in un certo contesto storico (la rivoluzione francese) e diventata presto orientamento strutturato idealmente e organizzato politicamente.
Veltroni non è ignorante, ma è vittima del doppio vizio comunista di voler mettere le braghe al mondo e di non voler mai riconoscere gli errori veri, quelli che ti mettono in discussione sul serio. In questo caso l’idea che il partito viene prima di tutto e insieme ad esso prima di tutto viene la salvaguardia del sistema di potere. E guai a stare un passo avanti al sentimento che si ritiene essere al momento più diffuso, altrimenti perdi il contatto con le masse, che è il portato puro del togliattismo. Così si può passare senza lacerarsi l’anima dalla scuola del comunismo sovietico al riformismo occidentale, perfino nella sua versione liberale.
Io ho conosciuto personalmente Veltroni quando era il dirigente comunista posto a riferimento (controllo?) dell’Umbria in sostituzione di Ingrao. Aveva la stessa mentalità di oggi. Chiamato a decidere se fosse giusto che una candidatura alle politiche espressa dalla base del partito fosse sostituita con una imposta dalla segreteria nazionale (per la cronaca su sollecitazione locale), si schierò con la seconda. Era il 1992. Che cosa viene prima dunque? Il popolo? La volontà degli iscritti? La sinistra? No, scherziamo?, l’apparato di potere, questo viene prima. Ovvio.
Veltroni lo ha sempre avallato: come ho detto, in occasione delle elezioni del ’92, poi in occasione delle elezioni del 2008 quando teorizzò il partito autosufficiente e imbarcò Di Pietro, e tutte le volte che si è trattato di decidere se il sistema di potere andava cambiato o confermato. Naturalmente a cose fatte giù lamentazioni sull’allontanamento dal popolo che soffre, tanto sono gratis! E così avanti fino alla prossima puntata. Un percorso quasi programmato verso la sparizione.
Ragazzi, ma ammettiamolo, che spettacolo questo caleidoscopio di togliattiani che diventano buonisti di professione e oggi anche di stalinisti e carristi che diventano riformisti! Ad uso massmediatico, s’intende. Che grandi leader!