La Repubblica italiana incoraggia e tutela il risparmio?
di Pier Luigi Leoni
“La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.” Con queste parole la costituzione italiana conferisce al risparmio il rango di valore sociale e giuridico fondamentale. Allungando lo sguardo al panorama preistorico e storico, da cui ricaviamo il nostro modo di pensare e di sentire, tutto si ridimensiona. I nostri progenitori, per alcuni centinaia di migliaia di anni, non hanno conosciuto il risparmio. Come raccoglitori e cacciatori campavano alla giornata. Non avevano modo di accantonare i beni vegetali e animali che si procuravano, ma dovevano consumarli quotidianamente, o quasi, per evitare che andassero a male e che i gruppi umani vicini, invece di faticare per andare a caccia e raccogliere frutti spontanei, li aggredissero e li rapinassero. Solo tra i 20 e i 10 mila anni fa i nostri progenitori si diedero all’agricoltura e selezionarono specie vegetali, come i cereali, di cui parte veniva consumata, mentre il resto poteva essere accumulato.
Dall’agricoltura nacquero la distinzione in ricchi e poveri, le città, le leggi, le magistrature, le polizie, gli stati, gli imperi e gli eserciti. Quindi l’abitudine al risparmio ha poche migliaia di anni, ma rimangono evidenti le tracce nella psiche umana di abitudini praticate per centinaia di migliaia di anni. Si spiega così la passione con cui si raccolgono funghi, cicoria, asparagi e lumache o si spendono tempo e soldi per andare a caccia e a pesca. Oggi, come ai bei tempi, una parte della popolazione non ha nessuna attitudine al risparmio o non ha niente da risparmiare. Ma c’è una parte che risparmia e un’altra parte dedita alla rapina dei risparmi altrui. L’organizzazione statale combatte le rapine che ha deciso di ritenere illegali, mentre tollera o favorisce altri generi di rapine.
Una forma di rapina legalizzata è quella dei politici che finanziano i propri stipendi con una parte del denaro prelevato forzosamente ai contribuenti. Mentre invece alla politica, che dovrebbe piacere solo alle persone generose, perché fonte di grandi soddisfazioni morali, dovrebbe essere coerentemente dedicato il tempo libero. Ma la più grande rapina legalizzata è quella delle banche. Infatti la potenza organizzativa e la scaltrezza dei banchieri non sono paragonabili a quelle dei comuni cittadini. Tanto è vero che costoro sono quotidianamente rapinati con continui ritocchi alle tariffe dei servizi bancari, ma soprattutto inducendoli proditoriamente all’investimento in beni finanziari rischiosi, oppure limando i depositi mediante la corresponsione di interessi pari a zero, o comunque non sufficienti per compensare l’inflazione. Adesso, vari anni di recessione economica, con centinaia di fallimenti quotidiani di imprese indebitate con le banche, hanno portato allo scoperto il marcio del sistema bancario. Si è così diffuso lo sconcerto nei risparmiatori. Qual è il rimedio? Torna di moda il consiglio dell’economista ultraliberale Milton Friedman: l’investimento più sicuro è in tenore di vita.
L’opinione di BarbabellaPosso concordare, seppure con qualche dubbio e commento a margine che tralascio per economia di discorso, sull’idea che “l’investimento più sicuro è in tenore di vita”, ma l’amico Pier mi consentirà di discutere altre sue considerazioni.
La prima questione riguarda l’affermazione che “la più grande rapina legalizzata è quella delle banche”. È questa un’idea diffusa e con più di un motivo, ma la verità è che se le cose stanno così non è perché è necessario e inevitabile, ma perché: 1. il sistema di governo lo permette, come dimostra l’intrico di interessi che alla fine è venuto a galla (e credo solo parzialmente); 2. l’etica deviata dei banchieri inventati e prezzolati lo favorisce; 3. la scarsa preparazione dei risparmiatori lo consente (si veda quanto sostenne addirittura negli anni ’20 del Novecento Luigi Einaudi). Non è stato sempre così. Non è stato certamente così all’inizio, quando si impiantò e poi rapidamente si sviluppò il sistema bancario (nel Medioevo, dopo la rinascita delle città), si pensi solo a che cosa ha significato l’introduzione della “lettera di cambio” per lo sviluppo dei commerci. E non è stato sempre così nel corso della storia successiva, almeno per alcuni periodi, per alcune zone del mondo e per alcune banche. Insomma, niente avviene perché il destino lo vuole o perché lo vuole la natura umana o una strana divinità punitrice di chi osa possedere denaro; avviene perché condizioni create e volute o lasciate correre, insieme a scelte soggettive interessate, lo permettono.
La seconda questione riguarda l’affermazione che “una forma di rapina legalizzata è quella dei politici” e che “alla politica, che dovrebbe piacere solo alle persone generose, … dovrebbe essere coerentemente dedicato il tempo libero”. Io penso che la politica non è il male dell’umanità; al contrario, è ciò senza di cui l’umanità non sarebbe in grado di organizzarsi per vivere. Solo nelle società aristocratiche la politica è appannaggio di coloro che vi si possono dedicare nel tempo libero perché non costretti al lavoro. Nelle società democratiche avviene il contrario, e il massimo della politica è racchiuso nell’affermazione che “la sovranità appartiene al popolo”.
Con la conseguenza che l’esercizio effettivo della sovranità può avvenire solo attraverso l’elezione di rappresentanti nelle istituzioni (appunto, democrazia rappresentativa, l’unica che può consentire al popolo di esercitare, a determinate condizioni, i suoi diritti-doveri di sovranità, mentre quella diretta è solo una tragica presa in giro). E dunque anche con l’altra, che i rappresentanti del popolo devono essere pagati per la funzione che svolgono. Se poi le cose non funzionano è perché non c’è una rigorosa selezione dei candidati e degli eletti, per cui, come dimostra la situazione italiana attuale, i guai vengono da persone scelte spesso senza criterio, di etica labile e frequentemente incompetenti. Insomma, tutto ciò non c’entra con la legittimità degli stipendi ma, ripeto, piuttosto con la selezione che non c’è, cosicché il popolo, che non riesce a farla, è tentato (e c’è chi lo incoraggia) di andare per le spicce, e buttar via con l’acqua sporca anche il bambino.
Sia le banche che la politica sono servizi indispensabili al buon andamento delle società umane complesse. Io penso che non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. La realtà è intrinsecamente dinamica, un continuo cambiamento la cui direzione non è necessitata ma determinabile, certo entro i limiti umani. In altre parole nessuno ci potrà mai togliere dalle nostre dirette e indirette responsabilità.
Il discorso di fine anno del Presidente Mattarella. Un discorso apprezzabile ma non privo di criticità
di Franco Raimondo BarbabellaIl discorso di fine anno del Presidente Mattarella ha avuto un ampio gradimento sia politico che mediatico che io ritengo giustificato. Un discorso essenziale e robusto che ha toccato temi scelti con cura, tra i quali spiccano la partecipazione al voto di primavera e la democrazia, i giovani, il lavoro. Né va trascurato che, nel panorama vasto di sciatteria concettuale e linguistica e nel clima di noncuranza per il bene pubblico in cui impazzano “nani e ballerine”, un discorso di questo tipo si distingue e segna la giusta distanza tra i fallimenti del ciclo che si chiude e la speranza di quello che si apre.
Peraltro non a caso, essendo Mattarella quel tipo di “prodotto politico” che fino a poco tempo fa i falsi innovatori avrebbero definito vecchio e da rottamare e che oggi appare al contrario come ciò che può garantire un futuro al riparo da pericolose avventure essendo fondato su una storia personale e politica, una solida preparazione e la fedeltà sicura all’istituzione che rappresenta.
Detto ciò, e proprio perché il personaggio merita rispetto, il discorso del Presidente non può essere preso come oro colato e va valutato anche criticamente per gli aspetti che soggettivamente appaiono frutto anch’essi di preoccupazioni contingenti e di finalità istituzionali ritenute superiori alla verità esperienziale. Così è per me per ciò che riguarda il clima generale del Paese, la Costituzione come cassetta degli attrezzi di per sé a disposizione, il ruolo salvifico affidato ai giovani. Andiamo brevemente per punti.
Il clima del Paese. Nel numero precedente della nostra rubrica avevo commentato il Rapporto Censis 2017 dal quale emergeva lo stato di un’Italia come al solito contraddittoria riassunto così: “La ripresa c’è e l’industria va, ma cresce l’Italia del rancore”. Il Presidente ha contestato questa visione e ha detto che lui vede un’altra Italia, positiva e con la voglia di guardare avanti. È suo dovere fare professione di ottimismo, ma io penso che le cose stiano come dice il Censis.
La Costituzione. Francamente mi pare difficile dare per scontato che la Costituzione sia da ritenere una cassetta degli attrezzi bell’e pronta, che sta lì a disposizione di chi vuole orientarsi, in particolare dei giovani. A parte che nessuno può continuare ad illudersi che “la più bella del mondo” resti tale magari solo perché il 4 dicembre 2016 la sua riforma targata Renzi-Boschi è stata bocciata con il 75% di no, è evidente che sia l’ammodernamento dell’impianto istituzionale che il rispetto dello spirito e della lettera delle sue norme nella prassi amministrativa corrente sono temi a tutt’oggi stringenti.
Ma c’è di più: è proprio sicuro il Presidente che non si sia già lontani dal dovere di conoscere e di rispettare la Carta fondamentale? Sicuro che qualcuno, con rare eccezioni, si preoccupi sul serio che i nostri giovani la conoscano? Sicuro che tutti i soggetti che parteciperanno alla competizione elettorale e che si propongono di governare il Paese sono orientati a rispettarla? Ad esempio, analisi comparate tra programmi elettorali e norme costituzionali vigenti hanno evidenziato che c’è un movimento che non si preoccupa per nulla di andare clamorosamente contro la bellezza di 7 articoli. Forse il Presidente dovrà buttarci un occhio.
Il ruolo salvifico affidato ai giovani. Certo, è suggestivo l’appello ai giovani nati nel 1999 di partecipare alle elezioni e di contribuire con la loro onestà, preparazione e carica innovativa alla salvezza della nazione, come fecero i giovani di un secolo prima, la leva del 1899, con il loro sacrificio nella Grande Guerra. Gli uni salvarono l’Italia dopo il disastro di Caporetto, gli altri, quelli di oggi, dovranno aiutare l’Italia a salvarsi dal pericolo di disastro. Certo, in questo modo sembra che ai giovani si dia un ruolo importante, ma in realtà li si carica di una responsabilità impossibile da esercitare sul serio. Per tante ragioni, a cominciare dal fatto che la stragrande maggioranza di essi è lontana mille miglia sia dalla consapevolezza dello stato del Paese e delle sue esigenze, sia dalla preparazione e dalla volontà necessarie ad assumersi consapevolmente l’onere di scelte decisive.
Mi pare dunque un eccesso di retorica questo appello del Presidente ai giovani, nel quadro tuttavia di un discorso che ha una sua intrinseca validità e certamente una logica istituzionale chiara in un contesto di incertezza e di pericolosa confusione.
L’opinione di LeoniIl presidente Mattarella, credo con piena consapevolezza, sta praticando quella che l’apologeta cristiano Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, intorno al 300 d.C., mise come prima tra le sette opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi.
Credo che il presidente condivida i dubbi di Franco, quelli miei e quelli di tutti gli altri italiani. Ma il ruolo che gli hanno assegnato, e che egli ha accettato, gl’impone di non mostrarsi pessimista, d’incoraggiare, d’invitare a non farsi deprimere dai dubbi, ma a far leva sullo slancio vitale che è intenso soprattutto nei giovani. E un po’ di retorica non guasta, se è utile per suscitare emozioni positive.
Ma i dubbi restano, perché essi sono connaturali agli esseri umani.
Scrissi nel 2015: «Circa duecentomila anni fa, una di quelle scimmie che camminavano erette sugli arti inferiori, svegliandosi una mattina nel suo rifugio su un albero della Rift Valley africana, si pose la domanda se era meglio andare a caccia o a pesca. In quel momento nacque il dubbio e nacque l’uomo. All’istinto di conservazione dell’individuo e della specie s’era aggiunta una complicazione o, se si preferisce, una ulteriore evoluzione. Poiché il dubbio era paralizzante dell’istinto, l’uomo si trovò costretto a scegliere. Cosí scelse di andare a vedere cosa ci fosse al di fuori della Rift Valley. Ma per fare questa scelta ci mise più di centomila; e allora capí che doveva accelerare nel risolvere i propri dubbi, che intanto si andavano accavallando e non gli davano tregua. Ogni dubbio risolto apriva la strada ad altri dubbi. Un dubbio grande fu se era il caso di attenersi all’istinto di conservazione della specie, evitando, come fanno gli animali di altre specie, di ammazzare altri umani. Oppure se era il caso di ammazzare, depredare e schiavizzare altri gruppi di umani che intralciavano la sua invasione del pianeta. Scelse la guerra e la valutò come fattore di progresso»
Ma il progresso non ha sciolto i dubbi, e l’incertezza resta il clima dell’anima umana. Comunque tutti i dubbi non sono che quisquilie di fronte al dubbio dei dubbi, quello sul senso del mondo, dell’umanità e della nostra vita individuale. Ha scritto in proposito Miguel de Unamuno: «Dio ci ha dato una grande consolazione, una suprema consolazione, un sostegno intimo della volontà, ed è l’incertezza, la santa incertezza. Dove sta l’assoluta certezza della vita? Dove sta la certezza assoluta, completa, che la morte è un completo e definitivo, irrevocabile annichilimento di tutta la coscienza personale? E dove sta la certezza assoluta, completa, che la nostra coscienza personale si prolunga al di là della morte? Entrambe queste certezze ci renderebbero ugualmente impossibile la vita.»