Per il futuro di Orvieto la discussione vera non è su albergo si albergo no
di Franco Raimondo Barbabella
Da diverso tempo a questa parte cerco di evitare di occuparmi di questioni locali stringenti per non rischiare la presunzione di aggiungere qualcosa a quanto detto da altri già sufficientemente significativo. Tuttavia, ci sono discussioni che sarebbe sbagliato ignorare da parte di chi come me si è sentito e tutt’ora si sente impegnato a fornire il proprio contributo sui problemi della città. Ad esempio, quella che mi sembra aver interessato molte persone in questo periodo sui social: se sia normale che si pensi di trasformare in albergo cinque stelle l’ex ospedale in piazza Duomo mentre sono stati messi in vendita diversi alberghi della città.
Dico subito che una discussione impostata così mi lascia perplesso. Perché è oggettivamente deviante. Il tema infatti è semmai perché si mettono in vendita ben quattro alberghi, per di più tra i più importanti, e insieme perché chiudono esercizi commerciali storici. Non viene il dubbio che forse questo accade proprio perché non si è realizzato un albergo cinque stelle, non necessariamente in piazza Duomo, dove si sarebbe potuto pensare di realizzare altro (un moderno centro mostre? Un Palazzo della cultura? Un centro propulsivo della formazione nazionale e internazionale? Una moderna ed efficiente struttura sanitaria?) Mi spiego: non è che la situazione attuale avrà a che fare con il mix di conservatorismo e di improvvisazione che da troppo tempo ha preso il posto di una logica necessariamente progettuale e ambiziosa?
Di conseguenza c’è da porsi anche qualche altra domanda e qualche conseguente considerazione. La prima: perché tempo fa qualcuno è venuto, ha fatto incetta di attività commerciali per poi sparire, senza che nessuno se ne sia preoccupato pur essendosene accorti tutti? Sarà accaduto in omaggio ai principi del libero mercato o in ossequio all’idea che se mi pagano bene cedo l’attività e chi s’è visto s’è visto? Non sto sollevando una questione morale, ma una questione di salute imprenditoriale.
Torno a bomba. La discussione dunque dovrebbe ruotare esattamente intorno alla domanda: perché fino ad oggi si è impedito che ad Orvieto si realizzasse un albergo 5 stelle e possibilmente lusso, con tanto di spa eccetera? Che però se ne porta dietro un’altra, la seconda: è del tutto casuale e strano che alla differenziazione della domanda sia stata data una risposta di mercato, sì spontanea e scoordinata ma anche efficace sia in termini di qualità che di prezzi, con un reticolo di B&B e di attività di somministrazione di alimenti e bevande? Converrebbe riflettere, ritengo, su processi di questo tipo, non per attribuire colpe, ma per tarare le strategie di governo. Da qui perciò la terza domanda: lo si vorrà fare?
Ecco, a me pare che questa discussione denunci la cattiva coscienza di una città che per anni e anni ha praticato lo sport della distruzione delle occasioni di modernizzazione di sistema, preferendo un disordinato spontaneismo a progetti politici lungimiranti, ciò che prima o poi non poteva che generare una crisi preoccupante, con aspetti che vanno al di là di quello economico.
Ed è sintomatico che tra coloro che ne discutono c’è chi oggi non esita a porre problemi di modernizzazione quando al tempo del Progetto Orvieto, che era il momento di svolta verso il futuro della città, non si vergognava di difendere violentemente lo status quo, senza preoccupazione per le conseguenze nefaste di quella cecità. C’è anche chi continua a parlare di questi temi come se niente fosse, avendo contribuito ad affossare l’unico progetto complessivo di sviluppo del centro storico come motore del territorio prodotto negli ultimi tredici anni, il progetto del riuso di Vigna Grande.
Dunque, bisogna fare anzitutto un’operazione verità, senza la quale non si andrà da nessuna parte. Non è nostalgia, è il contrario, è bisogno di futuro. Lì, in quei progetti, c’era proprio l’idea che serviva già allora e che serve ancor più oggi, quella di interventi complessivi e coordinati. In particolare proprio il coordinamento tra ex Piave ed ex Ospedale, in base alla convinzione che le potenzialità di Orvieto sono riposte in alcuni settori strategici (es: cultura, turismo – culturale, religioso, di studio – convegnistica, enogastronomia, ricerca e formazione, servizi, artigianato e attività commerciali qualificate) che tutti insieme fanno sistema, e sistema originale, che distingue e rende competitiva la città.
Città che dunque deve esser bella, curata in ogni aspetto, e accogliente. L’albergo 5 stelle (che allora faceva parte del pacchetto di proposte per il riuso dell’ex Piave) non solo non era un danno per gli esercizi esistenti, ma era un ampliamento dell’offerta complessiva di accoglienza in direzione di target di fascia alta a cui la città deve necessariamente guardare. Che miopia! Era una struttura necessaria già più di dieci anni fa, figurarsi! Ma secondo un progetto generale di grande respiro.
La città deve funzionare complessivamente, sennò non si crea ricchezza. Cioè ci devono essere una politica turistica, una politica culturale, una politica dei servizi, una politica economica (che, per favore, non è solo di bilancio!), ma tutte queste politiche devono essere aspetti ed espressione coordinata di una politica generale fondata su un’idea di città e di territorio, che a sua volta va concepita come ipotesi e accettazione di una sfida di rilancio e sviluppo. Siamo nell’epoca della competizione tra sistemi territoriali. Ce ne vogliamo finalmente accorgere?
Oggi, subito, perché sennò non c’è nemmeno il domani. Il passato da rendere vivo dentro una cultura di governo molto dinamica e coraggiosa. Ma se non discutiamo di questo, di che cosa discutiamo? È davvero troppo tempo che la preoccupazione maggiore è come fermare chi si muove e non mettere in moto chi sta fermo. Verrà mai il momento di riconoscere gli errori fatti e di dire basta con le occasioni perdute? Via le scorie, e spazio allo sguardo lungo.
L’opinione di Leoni
Assistere al deperimento di complessi come l’ex caserma Piave e l’ex ospedale fa cascare le braccia e induce a tetri pensieri sulla capacità della città di Orvieto di costruire un futuro degno della sua storia e delle sue potenzialità. Anche così si spiega quel miscuglio di depressione, di rabbia e di scoraggiamento diffusi soprattutto nella popolazione del centro storico. Perché i richiami di Franco non finiscano fra le “prediche inutili”, che dettero il titolo a un celebre e amaro libro dell’ex presidente della Repubblica Luigi Einaudi, servirebbe una svolta. Servirebbe che la vitalità che consente anche alla comunità orvietana di sopravvivere non si esaurisse nel proliferare di affittacamere e di bed and breakfast, che vivono grazie alle maglie larghe del controllo fiscale; mentre i negozi chiudono e gli alberghi sono messi in vendita. Servirebbe che gli amministratori pubblici fossero provocati, stimolati e affiancati da personalità esogene, poiché quelle indigene, per il pregiudizio che ha sempre caratterizzato Orvieto come tante piccole città, sono accanitamente boicottate. Pochi giorni fa è uscito su La Nazione un servizio dedicato a Brunello Cucinelli, che col suo ideale di un capitalismo neoumanistico, è entrato nel cuore di tutti coloro che desiderano un mondo migliore senza sfasciare quello che c’è; anzi valorizzandone gli aspetti migliori come i monumenti storici, le bellezze naturali e artistiche, la passione per il lavoro ben fatto e per la cultura. Cucinelli ritiene che la prima cosa da fare sia prendersi cura della propria città. Ricorda, in proposito, la Costitutio senese del 1309 che prescriveva di tenere a cuore “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini”. Non sarebbe il caso di invitare Cucinelli a Orvieto, distraendolo per un po’ da quella Perugia che gli sta tanto a cuore?
La maggioranza degli italiani sono sempre stati di centro… e il M5S è un partito di centro
di Pier Luigi Leoni
Le parole destra e sinistra, in politica, sono oggi rese opache, nel loro significato, da schieramenti che creano confusione nei loro nomi e coi loro programmi. Le parole composte centrosinistra e centrodestra annacquano i significati di destra e di sinistra con quella di centro perché hanno paura di presentarsi da sole. Destra e sinistra cercano di far dimenticare due rami inquietanti dei loro alberi genealogici, due totalitarismi criminali come il nazifascismo e il comunismo. Il Movimento 5 Stelle, che si va consolidando come partito di maggioranza relativa, respinge sia le qualificazioni di destra e di sinistra che quella di centro. Nazifasciti e comunisti esistono ancora, ma sono marginali, e destra sinistra possono vantare anche ascendenze nobili e personaggi che hanno operato positivamente per la nazione, spesso di comune accordo, a cominciare dalla costituzione italiana. Ma la visione politica con l’albero genealogico più presentabile rimane il centro. E non è vero che, come si dice, che la maggioranza degli italiani sono di centrodestra: la maggioranza degli italiani, fin dal 1946, sono sempre stati di centro. Ora mi sembra che il Movimento Cinque Stelle risponda alla fame di centro che attanaglia chi non ha mai potuto soffrire, o non riesce più a soffrire, i personaggi eminenti della destra e della sinistra. Ciò spiegherebbe il suo successo. Peraltro l’esagitato comico che ha fondato il movimento si è ritirato dietro le quinte e ha lasciato il palcoscenico a un azzimato giovanotto che assume di giorno in giorno toni sempre più rassicuranti e cerchiobottisti. Bisogna ora vedere se il giovanotto riuscirà a far dimenticare ai moderati le esagitate volgarità del comico fondatore e il moralismo inquietante dei più ciarlieri tra gli esponenti del movimento.
L’opinione di Barbabella
Mi sembra francamente difficile sostenere, come fa qui Pier Luigi, che M5s “risponda alla fame di centro che attanaglia chi non ha mai potuto soffrire, o non riesce più a soffrire, i personaggi eminenti della destra e della sinistra”. L’antipatia e il fastidio per personaggi politici che genera un orientamento verso un’area di geografia politica? Fame di centro? Bah, sono molto perplesso.
Io per spiegare il successo del Movimento 5s propendo, e l’ho scritto ormai diverse volte, per una spiegazione piuttosto diversa, ancorata alla storia d’Italia passata e recente e sostenuta da analisi sociologiche e di cultura politica ormai piuttosto consolidate. In sostanza e in breve, l’accumulo di errori delle classi dirigenti dei partiti tradizionali e gli intrecci di questi con i poteri e gli interessi della società civile, un sistema in gran parte opaco e corruttivo, ha generato nel tempo una disistima così profonda e diffusa verso le classi dirigenti, le élites, che, in forza anche del rancore sociale generato dagli effetti della lunga e grave crisi degli ultimi dieci anni, ha creato il brodo di coltura in cui pescano alla grande i movimenti populisti di ogni tipo, in Italia Lega salviniana o M5s grillino, movimenti che, mutatis mutandis, riprendono spesso temi dell’estremismo e del qualunquismo che nel passato nazionale hanno avuto un certo e però passeggero appeal.
Sarà diverso, più lungo oltre che attualmente più consistente il successo di M5s? Può darsi, visto il compito di interpretare il trasformismo nazionale affidato oggi a Di Maio. Ma se sarà così, non sarà certo perché M5s si fa interprete di istanze cosiddette di centro. Per due ragioni: la prima è che non mi pare che complessivamente M5s abbia un orientamento riconducibile ad una schematica e fissa geografia politica; la seconda è che mi pare difficile interpretare oggi le vicende politiche italiane, come peraltro quelle europee e mondiali, nei termini delle grandi aree ideali (e ideologiche) tradizionali, quelle che hanno segnato la storia dell’Occidente dalla rivoluzione americana e dalla rivoluzione francese in qua. Mettiamo per un attimo a fuoco rapidamente le due questioni.
La prima. Ma vi pare che nel Movimento grillino ci si preoccupi di interpretare istanze definite? Semmai ci si preoccupa di prendere consensi dovunque, non facendosi scrupolo di niente. E però i tratti distintivi, nonostante il funambolismo di Di Maio, restano la capacità di cavalcare lo scontento diffuso, la rabbia di chi si sente escluso, il moralismo e il giustizialismo, la paura del diverso. Con l’aggiunta di un disprezzo per la democrazia e i suoi obblighi che non genera sconcerto solo perché lo spirito antidemocratico (alimentato da di qua e da di là) è diffuso e consolidato in parti rilevanti della borghesia incolta e inquieta.
La seconda. Qui il discorso sarebbe davvero lungo, per cui lo limito al minimo sindacale. Da tempo mi sto convincendo che la realtà politica-culturale-sociale contemporanea è così complessa che è impossibile ridurla allo schematismo di geografia politica destra-sinistra-centro. Poteva andar bene quando la società era statica e si pensava che il futuro potesse essere costruito in base a ideologie precostituite da attuare con partiti strutturati e governati con sistemi piramidali. E c’erano anche allora limiti seri, come dimostrano lavori storici di diverso orientamento. Figuriamoci oggi, nel mondo globalizzato e nelle società liquide. Dovremmo parlare, piuttosto che di partiti e movimenti, di aggregati, che nascono e si sciolgono sulla base delle convenienze del momento. Basti guardare alla vicenda nazionale che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Per assicurare potere e comando a gruppi e a persone, e forse in qualche caso per salvare o affermare idee, ma sempre più raramente.
Di qui lo sconcerto e la difficoltà di assumere posizioni che restino ferme per qualche tempo. Io penso perciò che il giudizio e le scelte ormai vadano affidati ad una capacità di discernimento i cui riferimenti, più che le ideologie e gli schemi di geografia politica, siano le idee formulate in funzione di soluzioni a problemi collettivi e le persone che per capacità e affidabilità si ritiene possano essere in grado di attuarle. È il tema difficile del riassestamento di un Paese sbandato da affidare ad una classe dirigente che ne sia all’altezza. Roba, mi sia consentito, da “centro di gravità permanente” da ricercare come se fosse possibile pur sapendo che non lo sarà, più che da centro garantito (ad esempio dal fatto che si ritiene che la maggioranza degli italiani lì ami stare) di una tradizionale geografia politica.