La lezione che viene dal 51.mo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese
di Franco Raimondo Barbabella
Ho scritto più di una volta che in cima alla scala dei problemi del nostro amato Paese c’è quello di avere una classe dirigente che, ad ogni livello, sia in grado di affrontare con competenza e coraggio le sfide continuamente rinnovate del mondo che cambia. Oggi non è così e domani è difficile che sia così. Ma il tema fondamentale è questo. E con esso quello del che fare, che vale per ciascuno di noi che non si voglia fermare a guardarsi l’ombelico. Lo testimonia da ultimo lo stato della società italiana descritto come al solito con efficacia di analisi e di resa linguistica dal 51.mo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese.
La riflessione sarebbe d’obbligo sempre e per chiunque senta come stringenti i doveri di cittadinanza, ma diventa inevitabilmente più forte in particolari occasioni, come è ad esempio il rinnovo delle assemblee elettive, o in particolari momenti, come è il passaggio da un anno all’altro. Ora siamo in uno di tali momenti, e questo numero della nostra rubrica cade proprio il primo gennaio.
Al di là delle interessanti statistiche delle diverse sezioni, il Rapporto Censis colpisce per la messa a fuoco di alcune tendenze di notevole impatto. Ne voglio citare tre: la paura del declassamento e la crisi del ceto medio, la scala di priorità dei giovani (gli under 30), il montare del rancore sociale. Vediamole brevemente più da vicino queste tendenze.
1. La paura del declassamento e la crisi del ceto medio. Essa è testimoniata non solo dall’impoverimento reale in questi lunghi anni di crisi, ma dal venir meno della fiducia nel futuro: “L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa infatti che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. La paura del declassamento è insomma il nuovo fantasma sociale”. Questione molto seria, per tutti i ceti colpiti, ma in particolare per il ceto medio, perché, come sa chiunque abbia una qualche dimestichezza con la storia, la tenuta del tessuto liberale e democratico passa attraverso la solidità dei ceti medi.
2. La scala di priorità degli under 30. “Nella mappa del nuovo immaginario i social network si posizionano al primo posto (32,7%), poi resiste il mito del «posto fisso» (29,9%), però seguito a breve dallo smartphone (26,9%), dalla cura del corpo (23,1%) e dal selfie (21,6%), prima della casa di proprietà (17,9%) e del buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (14,9%)”. Ciò che mi pare vada sottolineato è sì lo schiacciamento acritico sui simboli della società digitale, ma soprattutto la riduzione a fattore marginale di “un buon titolo di studio”, che è la spia della sfiducia non tanto nel possesso di un titolo quanto piuttosto nello studio come tale.
3. Il montare del rancore sociale. “Nella ripresa persistono trascinamenti inerziali … Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore”. Con la conseguenza che “l’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni”. Che dire? Un capolavoro, il trionfo della sfiducia. Se si fosse progettato, un risultato simile difficilmente sarebbe stato raggiunto a questo livello di perfezione.
Se poi a tutto ciò si aggiungono gli altri aspetti problematici rilevati da questo Rapporto e quelli contenuti anche nell’Annuario 2017 ISTAT (solo uno: nel 2016 sei italiani su dieci non hanno letto nemmeno un solo libro), allora si capisce perché il Censis sintetizzi la situazione del Paese, mi pare in modo allarmato, dicendo che sì la ripresa c’è, ma cresce nel contempo il rancore sociale e con esso crescono anche i movimenti populisti e sovranisti.
Che fare dunque? Come orientarsi, anche individualmente, in una temperie simile? Non ci sono ricette, è evidente, ma qualche indicazione può venire dall’intervista che lo stesso fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, ha rilasciato il 26 dicembre scorso a Il Dubbio proprio a proposito del Rapporto a cui qui ho fatto riferimento. A lui lascio dunque la parola per concludere.
Una indicazione di tipo generale: “Il ciclo formidabile che per cinquant’anni ha garantito al Paese un certo grado di benessere si è concluso. Di fronte alla crisi, l’eredità di quella stagione prospera ci ha consentito di resistere ma al prezzo di vedere congelata la nostra condizione. Da tempo siamo entrati in una fase transitoria, che può essere superata soltanto con un cambio di prospettiva deciso. Un nuovo paradigma in grado di rompere le molte inerzie che hanno fermato l’ascensore sociale: l’inerzia dell’economia sommersa, l’inerzia delle piccole e medie imprese, l’inerzia del ceto pubblico e dell’urbanizzazione della popolazione”.
E una indicazione più particolare: “La politica non è un’arte. La politica è un mestieraccio. Ed è proprio degli odiati mestieranti che ha bisogno prima di tutto. Bisogna ridare spazio a chi ha fatto gavetta nei comuni e nelle sezioni di provincia, riaprire le porte a chi il mestiere lo conosce davvero”.
Chi anni addietro era capace di buona politica ed ha fatto invece cattiva politica, e poi non ha avuto né la capacità di accorgersene né il coraggio di autoriformarsi, ha spianato la strada a quei ceti di improvvisati che abbiamo visto all’opera negli anni più recenti e il cui lascito maggiore ad oggi appare proprio il radicamento dell’antipolitica. Mi pare che a questi processi involutivi De Rita ci inviti a reagire.
Difficile che di scoppio vi sia un ravvedimento generale e che la virtù trionfi. Ma che non sia più il tempo degli improvvisati e dei manovratori, che ci voglia una qualche selezione e che uno dei criteri fondamentali debba essere la comprovata capacità di gestire situazioni complesse nei diversi comparti dell’impegno pubblico, credo che su tutto questo non ci dovrebbero essere più dubbi.
L’opinione di Leoni
Come faccio a formarmi un’opinione personale dopo aver letto le opinioni sparate a raffica dal CENSIS col fascinoso linguaggio sociologico che questa scienza non esatta prende a prestito da quelle esatte? Non mi rimane che rifugiarmi nell’esperienza emotiva della mia ormai (ahimè) piuttosto lunga vita. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’Italia stava ripartendo, i vecchi annoiavano noi ragazzi con l’espressione: «Beati voi che siete nati con la camicia!»
Da quegli occhi velati dalle cataratte traspariva l’incubo della miseria, delle guerre e delle relative tragedie. Traspariva anche la soddisfazione per il fatto che i loro nipotini non sarebbero stati tormentati dalle stesse angosce. Ma traspariva anche la raccomandazione di non rammollirci con le comodità che il progresso ci offriva ogni giorno di più. E invece ci siamo rammolliti. Televisione in tutte le case, motorizzazione sempre più diffusa, vacanze al mare, settimane bianche, viaggi all’estero, pensioni generose, assistenza sanitaria gratuita e via dicendo.
Tutte comodità che, condite con le chiacchiere degli economisti e dei politici, ci hanno indotto a cullarci nell’idea che, come i nostri genitori se l’erano passata meglio dei nostri nonni e come noi ce la passavamo meglio dei nostri genitori, potevamo star tranquilli che i nostri figli se la sarebbero passata meglio di noi. Ma poi qualcosa si è inceppato nelle “magnifiche sorti e progressive” e abbiamo scoperto che eravamo diventati troppo deboli per fronteggiare le nuove paure: il rischio dell’olocausto nucleare, la sovrappopolazione del pianeta, l’inquinamento, la diffusione delle droghe, la violenza interna e quella internazionale, la carenza di soddisfacenti sistemazioni di lavoro per i nostri figli, lo sconforto di fronte a governi che annaspano nel cercare di arginare le mafie, la corruzione, l’insicurezza delle nostre città, la crisi della scuola, della sanità, del sistema pensionistico e della protezione del risparmio.
Certo, una classe dirigente più adeguata sarebbe il toccasana. Ma bastano le buone intenzioni? Non si è sempre detto che di buone intenzioni sono lastricate le strade dell’inferno? Qualcuno se l’è cavata con l’ottimismo della volontà come antidoto al pessimismo della ragione. Io me la cavo sperando nell’analogia tra lo stato d’ansia della società e quello dell’individuo: arriva il momento che ci stanca di piangersi addosso. Quindi guarderei alle prossime elezioni, sia in caso di vittoria di una delle parti che di pareggio, come a un momento di sfogo collettivo. Come la folla dei tifosi che esce dallo stadio, ci renderemo conto che la realtà è nelle nostre case, nei nostri luoghi di lavoro, nelle nostre strade, nelle nostre scuole, nei nostri ospedali. E ci sentiremo ricaricati per andare avanti con coraggio.
Oh! Valentino!
di Pier Luigi Leoni
I nostri educatori, a cominciare dai nostri genitori, per finire con tutti coloro che ci dispensano consigli in ogni luogo e con ogni mezzo, ci raccomandano le piccole virtù: il risparmio, la parsimonia, la prudenza, la scaltrezza, la diplomazia e il sacrificio finalizzato al successo. Sporadicamente e quasi di sfuggita ci vengono additate le grandi virtù: la generosità, il coraggio, l’altruismo e l’amore per la verità. Così l’insegnamento delle piccole virtù ci trasmette il “buon senso”, ci consente di cavarcela nelle ordinarie vicende della vita secondo un modello che ci appiattisce e ci distrae dalla ricerca del “senso” del mondo e della nostra stessa vita.
Le catene del senso comune si spezzano solo quando ci capita un evento dirompente, come può essere un incontro inaspettato, una illuminazione o una grande sventura. Magari ciò non avviene mai e la morte giunge con passo felpato, cogliendoci nel sonno del nostro senso comune. Al poeta Giovanni Pascoli non bastarono le sventure familiari per afferrare il senso della vita, poiché trovò nell’alcol il mezzo per un lento suicidio, ma la sua prodigiosa sensibilità poetica ci ha lasciato una metafora che mi piace proporre come occasione di meditazione. Si tratta del canto “Oh, Valentino!” che racconta la vicenda del contadinello cui la mamma cerca di procurare un vestito nuovo risparmiando le uova del pollaio. Ma le galline “chiocciarono”, cioè smisero di fare le uova, prima che il risparmio accumulato bastasse, oltre che per il vestito nuovo, anche per comprare le scarpe.Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:
come l’uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare,
ci sia qualch’altra felicità.
Ecco, Valentino è l’emblema del massimo di felicità cui ci può portare il senso comune. Felicità che dura quanto l’inconsapevolezza che il falco ci ha adocchiato e che il cacciatore sta caricando il suo fucile.
L’opinione di Barbabella
E già, il senso comune è utile a sopravvivere, ma non basta per vivere, se con ciò si intende la ricerca di una vita piena, dotata di senso. Bisogna ammettere che nelle epoche passate la grande maggioranza degli esseri umani per orientarsi non ha avuto a disposizione nemmeno il senso comune, perché non disponeva delle più elementari libertà. Pochi comandavano e decidevano del destino di tutti. Il resto lo facevano gli eventi naturali e le malattie.
Pochissimi potevano o volevano penetrare la scorza della realtà apparente e riflettevano sul senso delle cose e sul senso della vita, ma certo sono questi che ci hanno lasciato un patrimonio di pensieri, di conoscenze e di emozioni, che ha fatto crescere l’umanità. Io credo però che anche tutti coloro che non hanno lasciato traccia perché non hanno avuto modo nemmeno di usare il senso comune, anche costoro, gli sconosciuti della storia, costituiscono l’esercito dei combattenti inconsapevoli i cui sacrifici ci permettono oggi di poter disporre del senso comune e anche di poterlo superare con la nostra personale, raramente comunitaria, ricerca di senso. Un privilegio nella lunga storia umana, di cui tuttavia si stenta a prendere coscienza.
La tendenza mi pare anzi non solo quella di ignorare volontariamente l’esistenza di un tale privilegio, di scansarlo in quanto possibilità che costituisce impegno per sé e per gli altri, ma anche troppo spesso quella di sfuggire addirittura alle semplici e impegnative regole del senso comune. D’altronde bisogna ammettere che è molto più semplice seguire il criterio degli “impegni che non impegnano” (Robert Nozick), ritenere normale poter dire tutto e il contrario di tutto, o spararle grosse e fare i moralisti piuttosto che impegnarsi in ricerche di verità e in operazioni di senso.
Anche per tale ragione proprio in questo periodo mi sto impegnando nella riscoperta attualizzata delle virtù cardinali, che ho inserito nel breve corso di filosofia che tengo nelle Unitre.
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