di Mario Tiberi
“Passate le feste, gabbato lo santo”? No, proprio No! Perché, se così fosse, i giusti e i meritevoli correrebbero non uno, bensì un doppio rischio: quello di veder travolti, assieme al dovere praticato e dopo di esso, anche i loro legittimi diritti.
Quanto detto nella premessa vuol significare, infatti, che le questioni di principio legate al dispiegarsi della vita pubblica debbano tendere, non ad evaporare nel dimenticatoio della storia, ma invece a rafforzarsi e stabilmente strutturarsi nella società qualora non si voglia ulteriormente declinare verso forme e sostanze di politica sciatta e mediocre. Di tale argomento, è mia intenzione intrattenerVi nelle considerazioni che andrò ad esternare.
Da tempi lontani, è notorio e profondamente vero che il mondo della politica è in permanente debito, nei confronti delle masse popolari, per le sue malefatte, le sue corruzioni, i suoi scandali e, principalmente, per la sua incapacità di saper trasferire in provvidenze tangibili le attese di giustizia, le aspettative di vita dignitosa, le speranze di diritti uguali e realmente praticati provenienti dalle esigenze e dai bisogni della gente comune.
Del resto, il popolo non è che manifesti eccessive pretese: chiede soltanto al ceto politico, nel senso più ampio del termine, di poter affidare la delega della sua rappresentanza in mani degne e virtuose a fronte dei mandati conferiti.
Non è indifferente presentare una proposta programmatica piuttosto che un’altra: se il buongiorno si vede dal mattino, la prima cartina di tornasole, onde stabilire se una compagine meriti o meno la fiducia popolare, risiede proprio nella genesi della sua formazione etica, politica e culturale.
Personalmente, reputo essenziali e irrinunciabili almeno sei elementi di qualità per tracciare il profilo di un dirigente elettivo in organismi con funzione pubblica: 1) capacità di saper rappresentare le motivazioni ideali e di indirizzo delle scelte politiche che stanno alle fondamenta dell’Atto costitutivo del partito o del movimento di appartenenza; 2) autorevolezza e prestigio indiscussi goduti tra l’opinione pubblica; 3) meriti acquisiti per studi, conoscenze specifiche, esperienze personali e professionali; 4) solide basi di cultura generale; 5) limpidezza morale e comprovata onestà; 6) fedeltà alle norme statutarie e al codice deontologico contenuto nelle deliberazioni espresse dal partito o dal movimento di provenienza.
Affinché potessero affermarsi i suesposti canoni di riferimento, ad essi con tenacia e perseveranza ho voluto dedicare il mio personale impegno nell’arena politica con l’unico obiettivo che fossero compresi e rispettati.
Già, il rispetto: parola abusata e della quale ci si riempie la bocca spesso in modo arbitrario, vuoto e privo di valore. Una delle più alte forme di rispetto verso i nostri simili, per riecheggiare la sostanza e la vera natura del meritevole, è posta nel sincero e dovuto riconoscimento pubblico dei meriti altrui e ciò, inevitabilmente, non può che avvenire se non attraverso il virile superamento del sentimento della gelosia il quale, da che mondo è mondo, tante irrazionalità e nefandezze ha generato e continua a generare.
All’opposto del rispetto vi è la negligenza: essa, infatti, spesso scaturisce dal livore dell’invidia tale da produrre discriminazioni e ingiustizie tanto che, chi è negligente, è sempre colpevole non solo moralmente, ma anche giuridicamente. Sono affermazioni già pronunciate, ma che non mi stancherò mai di ripetere.
Un arguto favolista del mondo antico ha lasciato scritto: “Superior stabat lupus…”, volendosi riferire ai pretesti con cui il prepotente ingiusto sfrutta i miti e gli umili i quali, per loro stessa natura, così sono in ragione dell’ essere meritevolmente saggi.
Più recentemente un Uomo, a cui è stata tolta la vita da chi volle colpire il “Cuore dello Stato”, ha profetizzato: “La stagione dei diritti si rivelerà effimera se non sorgerà un nuovo senso del dovere”.