di Mario Tiberi
Che la politica, almeno nell’accezione di esercizio delle funzioni di intermediazione tra interessi contrapposti, sia ormai da troppo tempo in profonda crisi di disciplina dottrinale e di essenza identitaria è questione arcinota ed ha appassionato, continuando ad appassionare, un nugolo assai vasto di commentatori e di osservatori delle vicende civili e sociali.
La diagnosi patologica è stata redatta in tutte le lingue e in tutte le salse; per la prognosi e i suoi rimedi si ha la sensazione di brancolare nel buio più pesto o perché non si riesce a mettere a fuoco il reale centro del problema o, peggio ancora, perché non si ha la volontà determinante di aggredire con forza la malattia, isolarla e circoscriverla per poi sconfiggerla.
Eppure una sana ed efficace ricetta è appena oltre la punta delle nostre scarpe; basterebbe con umiltà abbassare lo sguardo e rendere omaggio alla storia in quanto maestra di vita.
Pericle, tra i più grandi e illuminati statisti greci, nel 461 avanti Cristo si rivolse all’assemblea del popolo Ateniese con il seguente proclama che, almeno a me così pare, non sia affatto conosciuto da quei partiti, pd-forza italia-lega, ormai palesemente perniciosi per le sorti presenti e future del popolo italiano.
Dissertò Pericle: “Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi e, per questo, viene chiamato democrazia. Le leggi qui assicurano una giustizia uguale per tutti sia nelle dispute private che pubbliche e non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, bensì invece come una ricompensa al merito e, se povero, la sua povertà non costituisce un impedimento. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo per tutti, ergendoci contro di esso come fossimo un corpo unico”.
Proseguì Pericle: “Un cittadino Ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è di buon senso. Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti, qui ad Atene, siamo in grado di giudicarla. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni Ateniese cresce sviluppando in sé una felice predisposizione al Bene Comune, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra Città è aperta al mondo e noi, senza fondati motivi, non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così”.
Orbene, l’insegnamento di Pericle può senz’altro riassumersi nel fatto che il male inguaribile, e perciò letale, per i sistemi di governo democratico risiede nella incongruenza tra saldi principi e sue false applicazioni, tra il potere del pensiero originale e innovativo, vorrei quasi dire geniale, e l’avvilente potere spicciolo quello, tanto per intenderci, della “negotiorum parvorum gestio”.
Siamo dunque alle solite, con la riaffermazione del primato dell’intelligenza attraverso l’individuare, selezionare e consentire l’emergere di una “aristocrazia intellettuale” che affondi le sue radici nell’etimo più intimo del termine greco “Aristos” il quale, da millenni, ha il significato classico di “Migliore”.
Il migliore, per studi, conoscenze dottrinali, capacità di mente e di cuore, non si isola e non si erge superbamente al di sopra delle genti, anzi ne rimane loro saldamente al fianco, si immerge totalmente nelle profondità della coscienza popolare, la adotta come sua per farla crescere e riscattarla dalla schiavitù delle diversità diseguaglianti. E perché avviene tutto ciò? Ma perché il migliore è ben consapevole che ogni essere umano è diverso dall’altro e, dal riconoscimento e dal rispetto della singola diversità, arriva a comprendere che detto essere è uguale al suo simile proprio perché diverso e, in quanto tale, meritevole di tutela giuridica e di protezione sociale.
Ecco, dunque, che il principio di uguaglianza affonda le sue primigenie origini nella diversità degli esseri umani tra di loro, per bisogni e capacità, tanto che il soddisfacimento del bisogno individuale e il riconoscimento della capacità personale li rendono uguali gli uni agli altri.
Il potere della politica spicciola che dipinge i nostri giorni così tormentosi assomiglia molto ai Curiazi i quali, solo apparentemente, sembravano forti e invincibili; il potere delle intelligenze pensanti è invece paragonabile agli Orazi, meno prestanti e possenti, però più acuti e scaltri nella elaborazione di una strategia vincente, più ragionatori e riflessivi. E alla fine vinsero gli Orazi!