La democrazia parlamentare ha bisogno di contrappesi per non degenerare in dittatura della maggioranza
di Pier Luigi Leoni
Il genio di Alexis De Tocqueville (1805-1859) aveva già colto che la democrazia parlamentare sarebbe degenerata in dittatura della maggioranza se non avessero funzionato i necessari contrappesi. Infatti la maggioranza parlamentare, sia essa stabile e forte, sia essa incerta e ondivaga, non può che farsi paladina del senso comune. E il senso comune è determinato dal fatto che oggi gli uomini leggono le stesse cose (giornali), ascoltano le stesse cose (televisioni), frequentano gli stessi luoghi (vacanze e turismo), hanno gli stessi diritti e le stesse aspirazioni (lavoro e pensione, assistenza sociale e sanitaria, scuola e sicurezza). Così gli individui e i gruppi non omologati e non livellati sono sempre emarginati e perseguitati dalla dittatura della maggioranza, alla quale, spesso e volentieri, si associano anche le minoranze. La tendenza allo strapotere del parlamento non può essere frenata dallo stesso parlamento, ma da contrappesi riconosciuti e tutelati dalla costituzione. Tali contrappesi sono ancora oggi quelli individuati da Alexis De Tocqueville: la divisione dei poteri dello Stato, le autonomie locali, e i raggruppamenti formati dalla società civile. «Penso che semplici cittadini associandosi possano costituire degli esseri molto opulenti, molto influenti e molto forti, in una parola dei soggetti aristocratici. Si otterrebbero in tal modo molti dei maggiori vantaggi politici dell’aristocrazia, senza le sue ingiustizie né i suoi pericoli. Un’associazione politica, industriale, commerciale o anche scientifica e letteraria è come un cittadino illuminato e potente, che non si lascia piegare a volontà né opprimere nell’ombra, e che, nel difendere i suoi diritti particolari contro le esigenze del potere, salva le libertà comuni.» Questa forma aggiornata di aristocrazia è argine non solo allo strapotere del parlamento, ma anche alla deriva parlamentarista delle regioni e degli enti locali.
L’opinione di Barbabella
L’omologazione totalizzante del senso comune è insieme un bene e un male: un bene, perché facilita gli accessi a beni materiali e immateriali, in quanto attenua o toglie barriere e offre opportunità; un male, perché appiattisce, dà l’illusione dell’uguaglianza e del tutto possibile (di più, del tutto dovuto), ottunde la spinta ad una sana e creativa competizione. La conseguenza più deleteria è la paura delle differenze e l’odio per tutto ciò che le alimenta, a partire dalle capacità individuali.
Da qui il fenomeno più inquietante dei tempi che viviamo, quello dei movimenti populisti, dei quali il tratto più distintivo è non a caso lo schiacciamento verso il basso, la coltivazione di miti pauperisti intrisi di primitivismo, antiindustrialismo, naturismo antiscientifico. Con l’obiettivo (quello vero, al di là di ogni infingimento) di distruggere e soppiantare le élites formatesi sulla base delle culture della ragionevolezza e della speranza, le cui contraddizioni interne non sono state certo né restano poche, ma che hanno comunque sempre garantito la possibilità di passaggi migliorativi e di per sé mai solo e necessariamente distruttivi.
L’errore che compiono le classi dirigenti che mantengono un rapporto con le culture della possibilità e della speranza è di inseguire la demagogia dell’estremismo e del moralismo populista nell’illusione che così si riesca meglio ad intercettare appunto il senso comune e a sottrarre a quello il consenso popolare. Un’assurdità, una vera cecità, che si spiega solo con l’ascesa degli improvvisati e il predominio degli incompetenti diffusosi a macchia d’olio dopo le vicende di una ventina d’anni fa. Con questa datazione mi riferisco all’Italia, ma non è che in giro per il mondo, e in particolare per l’Europa, non si possano trovare situazioni che con tale descrizione calzano a pennello.
Ecco, in questi casi non si tratta di dittatura delle maggioranze che schiacciano le minoranze, ma di maggioranze stupide che aiutano le minoranze a sostituirle. Nel contempo possono, esse maggioranze, agire così stupidamente perché al loro interno hanno emarginato le minoranze critiche perché troppo (?) lungimiranti. Insomma, io vedo processi dialettici molto più complessi di quelli descritti da quel geniaccio, concordo con Pier, di Alexis de Tocqueville, ma non c’è dubbio che la speranza sta nei meccanismi autocorrettivi che i sistemi democratici possiedono in esclusiva e che però sono in grado di aggiornare solo quando prevalgono in essi la capacità di prevenzione e il coraggio della sensatezza, quando cioè lo sguardo lungo diventa consapevolezza dei propri doveri e senso delle proprie responsabilità. Cose complicate e mai scontate.
Non so se l’esigenza di veder crescere vere (non uso il termine “nuove” sia perché abusato e fallimentare sia perché ambiguo) classi dirigenti, capaci di governare i processi complessi e mobili di oggi e di domani, sia alla portata delle diverse forme di associazionismo, anche perché non mi sembrano queste le preoccupazioni più diffuse nemmeno in esse, né vedo da qualche parte spuntare processi lucidamente selettivi a caccia delle migliori menti e dei migliori cuori (alla greca, appunto gli áristoi).
Ma è Natale, e non si sa mai. D’altra parte, non è forse vero che più di duemila anni fa nessuno poteva immaginare che da quella strana nascita di un bimbo in una povera capanna sarebbero derivate trasformazioni umane, spirituali e materiali, così forti e di così lungo periodo. Ed è anche vicino il nuovo anno che, stando a quanto ha detto Lucio Dalla, “porterà una trasformazione”. Nessuno sa naturalmente di che cosa si tratta e se ci sarà. Però è vero che “tutti quanti stiamo già aspettando”. Il guaio più grosso è che – lo riferisce lo stesso Dalla – lo ha detto la televisione. Perciò dite voi se ci possiamo fidare. Auguri!!!
Da una parte Virginia Raggi, dall’altra Carlo Calenda: due Italie, due prospettive, una scelta.
di Franco Raimondo Barbabella
Philippe Daverio conclude ogni capitolo del suo ultimo libro “Ho finalmente capito l’Italia” con una “morale della storia”. Quella del primo capitolo “Il Re o il Principe” è la seguente: “L’Italia è il Paese della massima flessibilità. Tutti possono arrivare ovunque, non conta il casato di nascita, conta la fortuna e un po’ d’aiuto, sia in cielo sia in terra”. Sintesi che sprizza intelligente ironia insieme a vasta cultura e sguardo puntato sul reale.
Di casi che ne esemplifichino lo spirito di verità se ne possono trovare senza sforzo. Me ne vengono in mente due, diversi, anzi opposti, al centro delle cronache di questi giorni: Virginia Raggi, Sindaco di Roma, e Carlo Calenda, Ministro dello sviluppo economico. Entrambi, infatti, sono arrivati a posizioni di comando, e diventati di conseguenza anche personaggi mediatici, non per destino segnato dal lignaggio (anche se Calenda viene da una nota famiglia di operatori culturali e, si sa, difficilmente la cultura è un settore che genera potere) quanto piuttosto per le circostanze in cui si sono trovati ad agire e che almeno in parte hanno abilmente utilizzato.
Però appunto in un quadro di massima flessibilità ambientale, cioè nelle condizioni di un Paese in cui tutto è possibile, perché sennò, nel caso della Raggi, chi avrebbe mai potuto immaginare di affidare ad una persona così impacciata, senza storia e senza caratura, la guida di una città come Roma e, nel caso di Calenda, quando mai uno come lui, preparato, capace e di mente libera, sarebbe mai potuto diventare ministro se quel posto non fosse stato reso libero all’improvviso, per puro caso, dalle dimissioni di Federica Guidi? Due personaggi opposti, due personaggi italiani, espressioni di due condizioni e anche di due prospettive.
Direi che da una parte c’è la vicenda di un sindaco che oggi si riassume, forse esageratamente e anche ingiustamente (ma chi di spada ferisce …), in quella di “Spelacchio”, l’abete ormai noto in tutto il mondo perché, portato a Roma dalla Val di Fiemme al costo non proprio risparmioso di quasi cinquantamila euro per esaltare l’idea di un Natale semplice e povero, è morto ancor prima che il Natale arrivasse. Un fatto intervenuto nel contesto di una politica grillina del no ad ogni idea che suoni normale ambizione di sviluppo moderno, a favore di un sospetto pauperismo sposo di un falso egualitarismo. Per cui non è strano che ne derivino, oltre ad un assalto distruttivo sui social, giudizi tranchant tipo questo di Claudio Cerasa: “L’albero di Piazza Venezia è esattamente il simbolo dell’omaggio fatto alla Capitale d’Italia dalla giunta grillina: un frullato di incompetenza, disorganizzazione, incapacità, inefficienza ….”.
E dall’altra c’è la vicenda, opposta, di un ministro della Repubblica, Carlo Calenda, che ha le idee chiare e però anche molto contrastate, cosicché, interpellato da Stefania Rossini su come si spiega tanta opposizione nel realizzarle, risponde: «Con il rifiuto della modernità. È un atteggiamento diffuso ed è anche colpa nostra, della classe dirigente, perché mentre il mondo cambiava a velocità siderale non abbiamo dato ai cittadini gli strumenti culturali per comprendere quanto stava accadendo. Perdiamo tempo a parlare di fesserie dalla mattina alla sera senza capire che la gente è spaventata. …”. Basterebbe questo per renderlo simbolo di una classe dirigente che non c’è e di cui ci sarebbe urgente bisogno. Ma fa di più: vuole sburocratizzare e promuovere gli investimenti che mettano al passo il Paese con il mondo più sviluppato, è favorevole alla privatizzazione e alla vendita di Alitalia in base al principio che ciò che conta è l’efficienza del servizio e non chi lo fa, vuole affermare la priorità dell’interesse generale (caso Ilva e caso TAP) rispetto a quelli particolari dei cacicchi locali.
Due Italie nella stessa Italia. Il dramma però non è che di Italie ce ne siano due (magari ce ne sono anche di più), ma che non si riesca a comporle in un disegno coerente in cui ci si possa ritrovare consapevolmente accomunati in un comune destino. Sarà la scelta che dovremo fare, quella vera, che è quale Italia vogliamo. Non c’è, né può esserci, una parte tutta buona e una tutta cattiva. Peraltro, nelle condizioni attuali, le due parti di cui parlo non corrispondono agli schieramenti esistenti e la prospettiva si presenta come stallo. Ma il punto è chiaro: la scelta di fondo si può fare, e nessuno potrà nascondersi dietro un dito.
L’opinione di Leoni
Che la scelta di fondo si possa e si debba fare non vi è dubbio. Che la sappia e la voglia fare il corpo elettorale è tutto da vedere. Dallo scontro tra i grillini e tutti gli altri può venir fuori di tutto o quasi. Ancora una volta dovrà essere la classe dirigente che uscirà dalle urne a porsi al di sopra, se non altro per istinto di conservazione, di un elettorato frustrato e frastornato. La democrazia parlamentare può reggersi solo se la qualità media dei parlamentari sia superiore a quella degli elettori. In un recente confronto televisivo tra Diego Della Valle e Giovanni Floris, il bravo imprenditore proponeva ai partiti di candidare solo persone competenti, dotate di un curriculum che ne attestasse la capacità e l’esperienza. Il bravo giornalista proponeva che tra i candidati competenti fossero inclusi anche gli esperti di politica. Così Floris cercava di attenuare il tono qualunquista della proposta di Della Valle. Non fu Guglielmo Giannini, fondatore del Fronte dell’Uomo Qualunque, a coniare lo slogan che per gestire lo Stato bastasse un bravo ragioniere? Il fatto è, o almeno a me così pare, che il qualunquismo contiene una punta di verità: per gestire la cosa pubblica occorre gente che lo sappia fare e che sia, oltre che intelligente e competente, umile e onesta. Saprà l’elettorato individuare, tra tanti candidati, almeno un numero sufficiente di persone che abbiano tutte queste qualità?
Tardani: “La rinnovata fiducia una responsabilità da condividere per rispondere alle aspettative della città”
ORVIETO –Venerdì 20 dicembre, nella Sala consiliare si è tenuto il consueto incontro tra la Giunta e i...