Da una analisi pessimistica una piccola professione di ottimismo. Tre episodi indicano alcuni mali diffusi nella nazione, ma se ne può cavare anche un segnale seppure flebile di riscatto.
di Franco Raimondo Barbabella
Mario Calabresi, direttore de La Repubblica, a proposito del blitz di giovani fascisti di Forza Nuova davanti alla sede del quotidiano: “Preoccupati per un clima che c’è nel Paese …. Questo risorgente fascismo si sente legittimato ad alzare la testa, si sente legittimato a minacciare … C’è un clima di intimidazione, di violenza … Bisogna tenere alta l’allerta: per troppo tempo in Italia si è tollerato che dalle curve degli stadi alle scuole crescesse questo sentimento. Bisogna stare attenti perché questo sentimento può inquinare la nostra democrazia”.
Commento. Che l’episodio sia grave, per di più in un clima in cui episodi simili si moltiplicano, è evidente. Che esso sia la spia di un degrado dei principi democratici e un pericolo per la convivenza civile, lo è altrettanto. Che sia frutto di una lunga, diffusa e grave sottovalutazione, lo è ancora di più. Ma che il direttore di uno dei due più importanti giornali italiani metta la scuola come responsabile di tale clima al pari delle curve degli stadi è intollerabile perché frutto di ignoranza e insieme di arroganza. Ma non viene in mente a Calabresi che il suo, come altri giornali, porta una responsabilità primaria nella diffusione di questo clima di intolleranza, di scontro continuo, di falsificazione della realtà, che viviamo da troppo tempo? Importante è vendere ed esercitare potere, non rispettare il principio di verità, giusto?
Andrea Scrosati, numero due di Sky Italia, a proposito della diffusione dei gruppi di genitori su WhatsApp: “Hanno fatto più danni le chat di mamme e papà trasformati in sindacalisti dei figli che vent’anni di riforme. La fine del principio di autorità e la lotta contro la competenza. Uno vale uno in classe. Populismo e diseducazione”.
Commento. Parole sacrosante queste di Scrosati. Ma anche qui la denuncia, pur benvenuta, viene solo quando si è toccati di persona. E naturalmente sempre con questo tono di fare la guerra a qualcosa o a qualcuno. Mai che da qualche parte venga fuori un discorso pacato e argomentato per far capire in quali condizioni è stata ridotta la scuola per l’affermarsi dell’idea che tutti possono tutto.
Piero Sansonetti, direttore de Il Dubbio, a proposito della detenzione di Dell’Utri gravemente malato: “Ma allora perché non lo fuciliamo, come si faceva una volta con i politici in disgrazia? In Italia, è vero, da una settantina d’anni non si usa più: l’ultimo credo che fu Buffarini Guidi. luglio 1945. Però si può fare un’eccezione, e chiedere alla commissione antimafia, magari, di scegliere il plotone di esecuzione”.
Commento. Ecco la controprova: solo se butti là una bella provocazione verrai notato. Certo, questa di Sansonetti sulla situazione di Dell’Utri è una provocazione giustificata dall’assurdo della vicenda stessa (condanna per un reato che all’epoca era inesistente, parere del perito del tribunale disatteso da chi lo aveva richiesto, persona malata grave e anziana che non può essere curata in carcere ma lì deve restare contro ogni buon senso: te la do io la rieducazione!). Ma resta il fatto che solo se la spari grossa hai in qualche modo voce in capitolo. E naturalmente il messaggio viene dalla stampa. Certificazione che si è perso ogni senso dello stato di diritto ed è stata messa in frigorifero l’idea stessa di giustizia da quella magistratura che dovrebbe garantirla e da quella politica che, per fellonia o per convenienza giustizialista, si è comunque subordinata alla magistratura.
Ma perché mettere insieme questi tre episodi? Prima ragione, di contenuto. Essi sono uno spaccato evidente del malessere diffuso nel corpo della nazione: ormai, non solo il nome delle cose, ma il buon senso sta scomparendo dall’orizzonte della vita civile. Seconda ragione, di forma: essi indicano il venir meno, da tempo, dell’estetica delle idee, del buon gusto che si fa organizzazione della vita della nazione; e non c’è nulla nella realtà che sia vero se non è anche bello. Terza ragione, di politica: i tre episodi dimostrano che il populismo ormai è così diffuso che ha bisogno di essere declinato; c’è infatti il populismo giornalistico, il populismo scolastico, il populismo giudiziario, e si può continuare. Quarta ragione, di significato culturale e insieme di testimonianza: il primo episodio indica l’arroganza castale; il secondo, la confusione dei ruoli; il terzo, il moralismo e il giustizialismo che fanno strage di verità e di giustizia. Altrettanti mali della nazione, che così perde la bussola. Ma in essi, tutti e tre, c’è anche un conato di reazione. Aggrappiamoci ad esso, anche se ad oggi è un segnale flebile e di radicamento incerto. Innanzitutto perché non bisogna mai dare per scontato che non si possa fare niente. E anche perché proprio in questi giorni, dopo anni di lotta di persone estremamente sofferenti e di persone sensibili al tema del fine vita e del rispetto costituzionale della volontà della persona, è stato sconfitto il moralismo immorale diffuso nel corpo nella nazione almeno su un punto. È il punto, non proprio secondario, che non è consentito a nessuno imporre ad altri la propria convinzione che persone già sfortunate debbano soffrire all’infinito contro ogni logica e ogni buon senso.
L’opinione di Leoni
Siamo vittime di un eccesso di comunicazione. Una volta c’era la Rai e la stampa. Adesso, non solo si sono moltiplicati i canali televisivi e radiofonici e i giornali stampati e on line, ma ognuno, grazie a internet, può diffondere la propria opinione e mettere in rete notizie vere e false. La capacità del discernimento, che un tempo era chiamata virtù della prudenza, è stata sempre indispensabile, ma adesso è diventata una esigenza vitale se vogliamo evitare il caos mentale e la disgregazione del vivere civile.
Cerco di esercitare il discernimento in ordine ai casi citati da Franco.
Che in Italia ci sono anche i nazifascisti e i razzisti, come ci sono i comunisti e gli anarchici, lo sappiamo tutti. Ogni sistema ha i suoi elementi antisistema, ogni organismo ha i suoi germi patogeni. Questo vale anche per i sistemi democratici. L’importante è conoscerne i sintomi e utilizzare la forza della legge per curare le patologie del sistema. Senza trascurare quelle patologie che ammorbano ogni sistema sociale, come la delinquenza organizzata e non organizzata.
Quanto alle responsabilità della scuola, il fenomeno dei genitori sindacalisti mi sembra il frutto avvelenato di una pretesa autoritaria dello Stato: quella di monopolizzare i titoli di studio, cioè di ostinarsi a conferire valore legale ai titoli rilasciati dallo Stato o per conto dello Stato. A parte il fatto che così un diploma rilasciato a Palermo equivale, sul piano legale, a quello rilasciato a Bolzano, i genitori, sia di Palermo che di Bolzano, sono indotti a tutelare il raggiungimento del diploma da parte dei loro figli, ricorrendo anche alla contestazione degli insegnanti, quando non bastano le raccomandazioni. Se i diplomi non fossero che semplici attestati di frequenza e gli esaminatori fossero i soggetti pubblici e privati addetti a conferire abilitazioni o a dare posti di lavoro, l’opera dei dirigenti scolastici, dei docenti e degli alunni ne verrebbe nobilitata. E si smetterebbe di parlare di scuola che non funziona, ma si parlerebbe di scuole che funzionano meglio e di scuole che funzionano peggio, dato che il mondo è vario e le riforme non possono uniformarlo.
Quanto al caso Dell’Utri, credo che esso costituisca una ennesima dimostrazione di come la crudeltà non sia solo un vizio degli individui, ma anche delle istituzioni. Un’ultima parola per la legge sul fine vita, che mi sembra in linea con la necessità di evitare l’accanimento terapeutico senza mettere nei guai medici e familiari. Che il prossimo passo sia la legalizzazione dell’eutanasia è possibile, ma non per colpa di una legge che vuole arginare l’accanimento terapeutico. Non so se tornerà in voga, in veste di infermiera munita di siringa, la funzione della femmina accabadora, armata di apposita mazzetta, alla quale sembra che ricorressero in Sardegna i familiari dei malati terminali.
Vantaggi e svantaggi della parlantina in politica
di Pier Luigi Leoni
Lo scilinguagnolo è il frenulo che lega la lingua all’alveo inferiore della bocca. Perciò si dice che ha lo scilinguagnolo sciolto chi ha tendenza a parlare a lungo e facilmente, chi ha parlantina. Ma la parlantina ha poco a che fare con quel particolare anatomico ed è dovuta a una attitudine cerebrale (più frequente nelle donne che negli uomini) favorita dall’ambiente culturale. Giovedì 14 dicembre, due toscani, Maria Elena Boschi e Matteo Renzi, hanno dato prove ulteriori della loro parlantina, agevolata dalla sicurezza con cui i toscani maneggiano la lingua da essi imposta al resto d’Italia.
Mentre noi non toscani, quando parliamo in lingua, siamo impacciati dal dover tradurre dal dialetto materno, essi non hanno bisogno di questa fatica. La qual cosa finisce con l’essere irritante e col suscitare antipatia. E quanto abbiano influito sull’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 la parlantina di Renzi e di Boschi mi sembra abbastanza evidente. Tanto che i flemmatici Paolo Gentiloni e Marco Minniti, parlando lentamente e non riuscendo a nascondere l’inflessione romanesca e calabrese, finiscono con l’essere simpatici anche se non dicono cose simpatiche.
Ebbene, giovedì sera, Boschi e Renzi hanno opposto la loro parlantina agli attacchi degli interlocutori che non riuscivano a mascherare l’astio con cui giravano il coltello nella piaga del conflitto di interessi a proposito della Banca Etruria, pur senza poter dimostrare che vi siano stati favoritismi. Mentre Renzi si divertiva a prevaricare il suo intervistatore, acido e meno sciolto di lingua, Maria Elena Boschi, più bella che mai nella sua fredda indignazione, buttava là un’affermazione che sotterrava il presidente della Consob, il quale era stato poco chiaro nello scagionarla: «Con Vegas ci sono stati più incontri. In una di quelle occasioni Vegas mi chiese in modo inusuale di incontrarci a casa sua alle 8 di mattina, e io risposi che ci dovevamo vedere al ministero o in Consob». Non so se la parlantina di Grillo e di Salvini prevarranno, ma questi toscani mi sembra che non abbiano nessuna voglia di mollare.
L’opinione di Barbabella
È carina questa interpretazione che dà Pier della vicenda politica italiana centrata sul ruolo della parlantina. Si, certo, nell’epoca dello strapotere tv la parlantina è stata e per certi versi resta utile, ma da tempo siamo entrati in un’altra epoca, quella dei social, anch’essi già entrati in crisi di identità e di funzione. Mi pare dunque che ormai ci si stia avviando a prospettive in cui conteranno altre cose. Soprattutto, ho l’impressione che sia proprio la saturazione da parlantina che sta di nuovo portando in primo piano il bisogno di cose più consistenti, direi sode, meno volatili, tipo la cura degli interessi collettivi, le capacità di ideazione e di gestione, la credibilità per esperienza comprovata.
Naturalmente poi conta anche come idee e azioni si fanno conoscere e si vendono presso il grande pubblico. Ma resta l’impressione che sono entrati in crisi i miti proposti anni fa da tv, massmedia in genere e spiriti paraculeschi, nel quadro della crisi dei partiti tradizionali e di un popolo che sembrava destinato a vivere dei miti friabili delle fiction in una realtà intesa come eterno spettacolo: l’avvenenza televisiva (ricordate la candidatura di Rutelli perché era telegenico?), essere giovane, essere donna, ecc. Tutti belli, tutti vocati al successo, tutti dotati di qualcosa eccetto la competenza in qualcosa, eccetto le capacità e l’affidabilità dimostrate sul campo. Un disastro, cose che hanno segnato un’intera stagione e ci hanno fatto “regali” indimenticabili.
Non sappiamo, non possiamo sapere, a chi sarà più utile lo scilinguagnolo, se alla coppia Renzi-Boschi o alla forse futura coppia Grillo-Salvini. A me però pare di sapere che nessuno di loro sia oggi lo stesso di solo un anno fa ed abbia per così dire la forza propulsiva di un anno fa. Sono stati abili nella costruzione della loro ascesa, hanno usato vantaggiosamente la rete di potere fornita dalle loro famiglie, ma nessuno di loro ha costruito qualcosa di credibile, di solido. E sono tutti costretti alla lotta a coltello del giorno per giorno, sempre in bilico, sempre su un terreno friabile. Cambiano opinione di ora in ora. Vendono pannina, di fatto ridotti alla televendita di Vanna Marchi per sopravvivere. Questo si, hanno sbalestrato un popolo già incerto del suo e impreparato a vivere nella società della conoscenza e della comunicazione. Hanno imitato Berlusconi cercando di rubargli il mestiere del politico improvvisatore e televenditore e rischiano oggi di ritrovarsi superati dal maestro che volevano superare.
Insomma, io non credo alla politica della furbizia, della pura promozione personale e del potere assoluto della parlantina. Penso ad esempio che Renzi e la Boschi abbiano perso il referendum del 4 dicembre non per aver abusato di parlantina ma per aver difettato di intelligenza, per non aver avuto il coraggio di fare riforme serie e non furbesche. Penso che Maria Elena Boschi, se avesse avuto un briciolo non dico di visione e lungimiranza ma di solo buon senso, avrebbe dovuto dare le dimissioni da ministro subito dopo la sconfitta delle riforme sulle quali lei, insieme a Renzi, aveva messo la faccia.
Abbiamo una classe dirigente povera, figlia di un paese che è quello che descrivono tutte le indagini internazionali, che non si preoccupa mai delle cose serie e che continua ad essere convinto che basta il riconoscimento della pizza napoletana come patrimonio dell’umanità per sopravvivere, magari accompagnandosi quando capita anche con qualche strimpellata di mandolino.
Ignorando però le grandi potenzialità e i depositi di capacità che, sparsi qua e là, pure ci sono, sono ancora importanti e qualche volta riescono pure ad emergere. Io guardo con fiducia a queste riserve. Sinceramente, i venditori di pannina spero che prima o poi vengano resi innocui.