di Pier Luigi Leoni
Alcuni anni fa, in una libreria di Maniago, in provincia di Pordenone, fui presentato a Mauro Corona, lo scrittore montanaro di Erto, sopravvissuto alla tragedia del Vajont e rimasto abbarbicato alla sua montagna. Mi sembrò imponente e inquietante nel suo rustico abbigliamento e col suo spiccio modo di fare.
Da qualche tempo lo ritrovo acuto opinionista in televisione e sulla stampa. La settimana scorsa, su “7”, allegato del Corriere della Sera, ha spezzato una lancia a favore dei negozi e degli esercizi pubblici delle zone di montagna, denunciando che le norme fiscali che fanno soffrire gli esercizi di pianura, sono letali per quelli di montagna. Quindi invoca una disciplina separata per arginare lo spopolamento della montagna con il conseguente degrado ambientale e con la perdita di valori culturali.
Poi Corona si occupa di scuola e afferma che dovrebbero essere ammessi nelle aule gli smartphone, prodotti ormai facenti parte della vita contemporanea, mentre però ogni scuola dovrebbe avere accanto un orto didattico dove si faccia esperienza di un altro aspetto, antico ma onnipresente anche nella vita contemporanea. Corona mi ha fatto ricordare della mia infanzia, quando il mio insegnante, che era anche mio padre, si arrese alla penna biro, ma ripristinò l’orto didattico, nel quale imparai a zappare, concimare, rastrellare, seminare, sarchiare e innaffiare; ma soprattutto a rispettare chi quelle operazioni le compie per vivere e per farci vivere.
L’opinione di Barbabella
Ricordo anch’io l’epoca in cui maestri e direttori e presidi stentavano ad accettare le novità che il mondo veniva man mano producendo. Ma poi tutto è rapidamente cambiato, direi in peggio. Non solo nel senso che molti, troppi, resistono a misurarsi con le innovazioni, sia tecnologiche che culturali e sociali, anche quando vi siano obbligati dalla legge e dalla funzione, ma soprattutto nel senso che molti, troppi, non si vergognano nemmeno di praticare l’indifferenza più povera di contenuti e più ricca di veleni diseducativi. Perciò dal mio punto di vista il tema educativo non è l’estrema semplificazione del messaggio, ma invece il deciso recupero della complessità culturale nelle strategie educative e l’adeguamento di strutture ed organizzazione alle esigenze della modernità.
Rispetto dunque Mauro Corona, ma il selvaggismo che fa tanto chic mi insospettisce. Capisco e condivido l’esigenza non solo delle zone di montagna o delle piccole città e dei paesi sparsi per l’Italia di veder garantita la possibilità di approvviggionamento in piccoli esercizi senza doversi spostare verso i centri commerciali. Ma bisognerà anche ammettere che il commercio è fatto di scelte individuali dei consumatori, di qualità delle merci, di gusti, di prezzi, ecc. e tutto ciò lo garantiscono meglio l’intraprendenza privata e la concorrenza piuttosto che norme anche fiscali tagliate sul dirigismo.
Non capisco invece la moda di elevare a simbolo di qualcosa di futuribile chi non fa altro che riprodurre modelli consunti di contestazione di altri modelli sociali, magari poveri di qualità, inadeguati e anche in attesa di essere superati. Contestazione naturalmente senza una seria elaborazione culturale, senza una solida elaborazione di pensiero. Solo messaggi piuttosto grezzi, appunto imitazione di un selvaggismo oggi tornato di moda: viva il piccolo, viva le zone periferiche, viva la casa di legno, viva il negozietto, viva l’osteriola, fino a viva un po’ di sporco essendo l’acqua un elemento prezioso per cui lavarsi troppo di fatto è un crimine contro l’umanità. Operazioni più che altro mediatiche. Ecco, io questo tipo di cultura non posso condividerla.
Non sono evidentemente la stessa cosa gli orti didattici, iniziative presenti anche nelle nostre scuole, che meritoriamente cercano di educare i giovani non solo alla conoscenza delle tradizioni e al contatto con la terra, le tecniche di coltivazione, i prodotti genuini e la natura in generale, ma stabiliscono quel rapporto tra sapere intellettuale e sapere manuale che è fondamentale in una strategia educativa che voglia avere anche uno spessore civico.
Però dobbiamo essere consapevoli del fatto che la questione di oggi è come far crescere menti e animi di cittadini liberi, dotati degli strumenti che rendono capaci di trovare la propria strada in quanto permettono di interpretare la realtà e di muoversi in essa con consapevole responsabilità. E questo non appartiene alle prospettive mentali del modello Mauro Corona.
Un’indicazione dai tre giorni di “Orvieto in Philosophia”: c’è spazio per educare all’esercizio del pensiero critico.
di Franco Raimondo Barbabella
Come qui abbiamo sottolineato più volte, ogni giorno ci conferma che il nostro è un mondo in subbuglio in cui è difficile orientarsi se non si posseggono validi strumenti culturali e un’autentica disposizione all’ascolto sostenuta dal coraggio della responsabilità, la virtù che ci vieta di essere indifferenti.
Nei giorni scorsi, mentre da una parte l’imam di Firenze e presidente Ucoii Izzedine Elzir in una trasmissione tv assumeva posizioni di liberalismo spinto su alcune questioni controverse della religione islamica concernenti i diritti delle donne, dall’altra il presidente USA Donald Trump annunciava il trasferimento dell’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, con ciò riconoscendo di fatto quest’ultima quale capitale dello Stato ebraico e scatenando per questo la ribellione dei palestinesi e del mondo arabo e musulmano. Situazioni diverse e per portata imparagonabili, ma a mio parere molto significative per alcune ragioni che rapidamente spiego.
La prima è che laddove la politica è sostanzialmente subordinata, o per convenienza del momento o per condizioni storiche consolidate, alla religione, lì ogni cambiamento è vissuto come un attentato a principi irrinunciabili e la ragionevolezza diventa parola priva di senso. È la situazione mediorientale che esplode ogni volta che un qualsiasi atto rischia di modificare i rapporti di forza consolidati.
La seconda è che laddove, al contrario, il clima culturale e il costume sono improntati, a seguito di un lungo processo storico, ai valori dello stato laico e liberale, lì si può cambiare e si possono assumere come valori guida quelli della civiltà in cui si è scelto di vivere. È la situazione nostra, esemplificata dalla svolta di Ucoii.
La terza è che, se vogliamo salvare questa seconda prospettiva dall’attacco della prima, sempre più aggressivo e sempre più pericoloso, dobbiamo fare appello alla coscienza individuale. E l’unica possibilità che abbiamo è la diffusione del pensiero critico, ossia la capacità di pensare con la propria testa. È la grande tradizione del pensiero occidentale che, attraverso fasi storiche diverse e spesso drammatiche, alla fine è arrivata ad affermare i diritti e i doveri individuali intorno all’esercizio della responsabilità personale e sociale.
Ma si può sostenere che nelle convulse, contraddittorie e distratte condizioni in cui oggi viviamo c’è spazio per il pensiero critico? Se ne può legittimamente dubitare, soprattutto alla luce di atti di intimidazione e di vera e propria violenza che si stanno diffondendo nel nostro Paese, ultimo quello del blitz di alcuni esponenti di Forza Nuova sotto la sede di Repubblica. Mario Calabresi, il direttore, denuncia il brodo di coltura in cui cresce la sensazione di legittimità per tali atti di intimidazione e violenza: il clima generale permissivo in cui ognuno pensa di poter fare ciò che vuole, generato da eccesso di tolleranza e di vera e propria noncuranza che dura da troppo tempo.
Bene, benissimo, questa denuncia! Sicuro, bisogna fermare questa deriva. Ma chi ha tollerato e continua a tollerare e ad alimentare tale clima? Chi oggi denuncia ha la coscienza tranquilla? In attesa che chi deve (molti) faccia qualche attendibile riflessione e severissima autocritica, sarà bene continuare o cominciare, tutti e ciascuno, a fare ciò che si deve fare, soprattutto quelli che sono autorizzati a ritenersi esentati dall’obbligo di autocritica. Debbo dire che spesso, di fronte ai mille episodi che ci parlano di superficialità, indifferenza e peggio, per i fenomeni di degrado, sono preso dallo sconforto, ma poi mi basta registrare un segno contrario e mi ricredo. E questa volta per me il segno è stato molto forte, a conferma peraltro che le attività educative organizzate sono l’aspetto essenziale di una possibile strategia di contrasto del degrado che voglia essere efficace.
I tre giorni di “Orvieto in Philosophia”, chiusisi venerdi 1° dicembre con un successo straordinario di partecipazione qualitativa e quantitativa di studenti, docenti e cittadini interessati, hanno dimostrato che nelle nostre scuole e nella stessa società non c’è solo un importante potenziale intellettuale ma anche una sicura riserva di eticità, che si tratta di coltivare e far emergere. Si è visto lì come in concreto l’esercizio del pensiero critico può diventare strategico, difficile e impegnativo sì, ma anche per questo coinvolgente e appassionante. La battaglia del futuro, volendo, si può fare con qualche speranza.
L’opinione di Leoni
Condivido con Franco la soddisfazione per la risuscita dell’iniziativa “Orvieto in Philosophia” e mi complimento. Un evento degno della illustre storia della nostra città, in cui splendette il genio di Tommaso d’Aquino. Quanto alle osservazioni agrodolci di Franco sulla presente situazione internazionale, vorrei dire sommessamente alcune cose. Provvidenzialmente la vita umana è troppo breve per occuparsi di tutte le cosmologie, le religioni, le mistiche e le filosofie vive e defunte. Perciò siamo costretti ad accontentarci di sopravvivere con le poche certezze che ci hanno trasmesso i nostri genitori e le altre persone che ci hanno voluto bene, e con qualche altra certezza direttamente acquisita. Ciò non toglie che non dobbiamo rinunciare a pensare. Ma senza esagerare. E per fortuna vi sono i poeti, che rinfrescano con grazia le menti scaldate dallo sforzo di pensare. In un delizioso componimento, Giovanni Prati mette in bocca a Igea, la dea della salute, versi che ingentiliscono il proverbio popolare “basta la salute”:
“… Salvate, oimè! le membra / dal tarlo del pensiero! / a voi daccanto è il vero / più che talor non sembra. / L’uom che lo chiese altrove / dannato è sul macigno, / e lo sparvier maligno / fa le vendette a Giove. / In voi, terrestri, mesce / vario vigor Natura; / ma chi non tien misura, / alla gran madre incresce. / Destrier che l’ira invade, / fatto demente al corso, / sui piè barcolla, il morso / bagna di sangue… e cade…”
Resta il fatto che la salute è un bene precario, come precaria è la nostra vita e quella dell’umanità. Tornando alla presente situazione internazionale, come non vedere nei comportamenti di Donald Trump e di Kim Jong-un, cioè nel presidente democratico della più potente nazione mondiale e nel dittatorello di un piccolo e affamato popolo asiatico, la stessa follia? Quella follia che coinvolge tutti gli esseri umani fino a che, digiunando ciascuno nel proprio deserto, non abbiano resistito alle tentazioni del denaro e del potere.