di Mario Tiberi
Agostino Giovagnoli, storico e saggista, da tempo incentra le sue analisi critiche sulla contingente condizione politico-sociale arrivando a definirla come vera e propria “Tragedia Italiana”.
Egli vuole intendere che i tempi attuali possono essere considerati alla stregua dello svolgimento di una tragedia di stampo greco antico in cui, quasi paradossalmente, i diversi attori impersonano e interpretano lo scontro tra due entità contrapposte in maniera del tutto cinica ed egoistica. Le entità testé richiamate le si possono inquadrare, in estrema sintesi, nella categoria della difesa dello Stato da un lato e, dall’altro, in quella della difesa ad oltranza della casta politica dominante. Sul secondo versante, meglio sarebbe utilizzare l’espressione “autodifesa”.
In sostanza, Giovagnoli giudica l’odierno quadro istituzionale come una decisiva sfida in cui l’Italia, terra per antonomasia del melodramma e spesso della vuota teatralità, ha da dover affrontare un’autentica questione di etica pubblica.
Già da lungo tempo ormai, i comportamenti e gli atteggiamenti del ceto politico nel suo complesso vengono, dalla migliore intellettualità, stigmatizzati implicitamente o esplicitamente come rivendicazione della salvezza a tutti i costi di se medesimo ceto politico contro gli interessi prioritari dello Stato: ciò è tanto vero che alcuni sono perfino giunti a paragonare, usando un adeguato calibro di misura, i mortificati interessi superiori dello Stato ai martiri della Resistenza o ai più fulgidi esempi risorgimentali di virtù repubblicana.
Da una parte, dunque, i privilegi e le prerogative di una oligarchia spesso oligofrenica e, dall’altra, l’interesse supremo della Nazione, la salvezza delle Sue istituzioni, il rispetto per il popolo e, in una, la salvaguardia delle ragioni dello Stato in nome della più limpida “Ragion di Stato”.
Il tema, cioè, posto sul tappeto è totalmente politico: quello della natura e del modo di essere di una forma statuale, piuttosto che un’altra, in una società sempre meno governabile e in una condizione di permanente acuto conflitto sociale di fronte al quale, è miseria, l’arroccamento, il rifiuto di capire, la sostituzione dell’incompetenza al posto della vera politica e della schermaglia infertile al posto della feconda dialettica che, sola, può condurre le azioni dello Stato al servizio dei valori dell’Uomo e della Vita.
Se, poi, dal piano politico si volesse scendere o salire a quello giuridico, le argomentazioni da addurre sarebbero tutte al contrario di come si atteggiò Antigone nell’omonima tragedia Sofoclea e che, così, possono essere riassunte: non tutto ciò che appare conforme alla legge è di per se stesso lecito e legittimo e, al contempo, che il principio di legalità va attuato tenendo presente, altresì, il principio sostanziale della giustizia come forma, contenuto e fine della legalità medesima e, inoltre, che non sono mai da sottovalutare gli aspetti dottrinali della storicità del diritto e del rapporto tra astrazione della norma e giuridicità concreta.
Certo, di fermezza e rettitudine morale, di spiccate virtù civiche se ne vedono non cospicue in circolazione e non vi sarebbe necessità di ricorrere alla mitica figura di Attilio Regolo per ricordare ai governanti di turno, sia locali e sia nazionali, che come nessuno di essi può ambire ad essere un moderno Attilio Regolo, così i governi da essi retti e per come si comportano non possono sicuramente ambire ad essere assimilati al “Senatus Populusque Quirinus Romanus”.
Onde concludere, si torni all’inizio. Ho utilizzato un riferimento legato al termine “Tragedia” mentre, dal punto di vista dell’etica pubblica, gli attuali scenari politici non mi sembrano degni di nemmeno alcuna assimilazione alla sacralità di una tragedia, nel senso più proprio dell’espressione greca antica. Meglio si potrebbe definirla come una caricatura o una parodia di essa, accompagnata dalla consueta teatralità tutta italiana del melodramma.
Quanto precede porterebbe a far sorridere se, di mezzo, non vi fossero le sorti future del popolo italiano!