Che succede se qualcuno, nell’epoca dei social, mette il virtuale prima del reale?
di Franco Raimondo Barbabella
Chi provasse a individuare da qualche parte un criterio razionale per legare tra loro le diverse vicende del mondo di oggi, sarebbe costretto o a cercarlo in qualcuna delle vecchie costruzioni concettuali, inutilmente, o a inventarselo alla maniera delle ormai numerose invenzioni irrazionaliste, per intenderci del tipo delle scie chimiche. Eppure orientarsi si deve, magari solo accontentandoci di qualche similitudine alimentata dai ricordi e delle assonanze che un po’ l’estetica e un po’ la logica ci suggeriscono.
Così ci sembra che di qua e di là dai monti e di qua e di là dal mare chi oggi vuole far prevalere la sua faccia su quella degli altri può riuscire solo se è ricco come Tump, o è potente come Putin, o è sveglio come Macron. Ma i leader periferici o aspiranti tali, dalla Catalogna ad Orvieto, hanno vita dura. Si pensi ai candidati presidenti della regione Sicilia, schiacciati dalle manovre dei propri leader di riferimento e dal caos da cui loro stessi provengono. O si pensi a Puigdemont che, dopo aver dato la sensazione di voler interpretare la versione moderna sia del cavaliere senza macchia e senza paura sia del Davide contro Golia, decide di scappare in Belgio insieme ai suoi ministri. E si pensi al nostro Massimo Gnagnarini e alla vicenda delle sue dimissioni.
Credo di poter parlare di quest’ultimo accadimento senza riserve mentali, perché non sono né nelle condizioni di Pier Luigi e di Dante, che parlano influenzati dalla comune esperienza del Comune Nuovo e da un’amicizia quarantennale, né in quelle degli avversari politici e istituzionali. Ne posso parlare dunque senza pregiudizi e con chiarezza perché con lui ho sempre tenuto un confronto leale dicendogli direttamente quello che penso quando lo ha imposto la realtà. Ad esempio gli ho detto a suo tempo che era un errore la sua decisione di fare l’assessore e non invece il capogruppo della lista civica. Un errore, perché il rinnovamento doveva passare necessariamente per il Consiglio prima che per la Giunta.
Ho discusso poi con lui energicamente e pubblicamente quando egli a mio parere debordava con i suoi giudizi trionfalistici sul bilancio, o quando all’inizio del mandato voleva far passare l’idea che i finanziamenti statali per la rupe erano stati un regalo, o quando recentemente si è presentato come l’inveratore del Progetto Orvieto francamente senza averne titolo e senza poter disporre di esempi concreti di una progettualità assimilabile a quell’esperienza. Non si trattava, è evidente, di astiose difese del passato, quanto piuttosto, ed esclusivamente, di uno stimolo e di un richiamo a quel dovere di mettersi all’altezza delle sfide con cui la città deve misurarsi.
Capisco bene che quella infelice frase, diventata subito virale, ripresa da tutte le testate giornalistiche in Italia e perfino in Europa e diventata scandalo politico in men che non si dica, è solo una “Voce del sen fuggita”, però bisognerebbe ricordarsi che l’aria metastasiana si sviluppa così: “Voce del sen fuggita/ poi richiamar non vale;/ non si trattien lo strale/ quando dall’arco uscì”. Perciò, a che vale dire io sto dalla parte di Gnagnarini o dire che i nemici in agguato ne approfittano? Atti di amicizia, ma ovvietà senza effetto, semplicemente perché la situazione che in questi casi si determinata non è governabile se non con le dimissioni. Dimissioni che al momento in cui scrivo apprendo essere state accettate dal sindaco. Credo che non sia stata una decisione facile, ma era inevitabile che dovesse essere presa. Alla luce di tutto ciò conviene ora fare qualche riflessione.
La prima è che se ti metti sulla strada del battutismo, sei sì carino e frizzante, ma sei anche sul piano in cui tutto diventa possibile, anche lo scivolone, come dimostra il caso del tweet “Ti bruceremo vivo” diretto dal grillino Angelo Parisi contro il capogruppo pd Ettore Rosato. E poi il battutismo riferito alla storia è il più pericoloso di tutti, come dimostrano anche altri episodi recenti, ad esempio quello delle magliette degli ultras laziali con Anna Frank. La seconda è appunto il rapporto con la storia. Io credo che chi si occupa di cose pubbliche deve conoscere molto bene la storia, quella generale e quella locale, il cui rispetto e la cui capacità di interpretazione di fatto sono il fondamento di un’amministrazione lungimirante.
La terza e la più importante, infine, è la scala delle priorità. Che cosa viene prima in una amministrazione pubblica: l’affermazione di sé con tutti i mezzi offerti oggi con estrema facilità e immediatezza dalla comunicazione tecnologica o la dimostrazione del buon lavoro fatto, di problemi affrontati con metodo ed efficacia? Prima il virtuale o prima il reale? Io resto convinto che il virtuale non può sostituire il reale, nemmeno nell’epoca dei social, anzi soprattutto nell’epoca dei social. Perché alla fine il reale si riappropria comunque di se stesso. Nulla di personale dunque, ma solo leali riflessioni, sempre e solo con l’intento di contribuire, per quel che mi è concesso, al buon governo delle cose pubbliche. E qualche consiglio amichevole, per carità non richiesto, anche alle persone.
L’opinione di Leoni
Un celebre detto latino recita “amicus Plato, sed magis amica veritas”, cioè “l’amicizia di Platone mi è cara, ma ancor più mi è cara la verità”. Memore di questo adagio ho letto e riletto tutto ciò che riguarda la polemica su Massimo Gnagnarini e sfido chiunque a smentire che la bomba mediatica sia scoppiata con una estrapolazione giornalistica di una battuta postata da Massimo su facebook, nella pagina dei uno dei suoi “amici” orvietani. Lascio alla coscienza di ciascuno la valutazione morale di una operazione giornalistica del genere; mentre al mio amico Massimo ho già rimproverato di essere stato, in questa occasione, poco lucido. Ma che questo episodio, nonostante le sue scuse e la sua specchiata fede democratica (e cristiana), lo renda incompatibile con la carica di assessore comunale di Orvieto non regge. Ho sentito Alessandro Di Battista affermare giustamente che, se il Movimento 5 Stelle vincerà in Sicilia, il grillino Angelo Parisi sarà assessore. Sì, proprio colui che ha invitato a bruciare Ettore Rosato e ha chiesto scusa del twitt che gli era sfuggito in un momento di rabbia. Ebbene, lo sfogo rabbioso di Parisi è stato estremamente più pesante della maldestra battuta di Massimo. Ma allora perché tanto accanimento? Perché tanto astio contro l’assessore che è stato il principale artefice della uscita precoce della città dall’umiliazione del cosiddetto “predissesto”? Non posso paragonare il quoziente d’intelligenza di Massimo con quello dei suoi nemici del PD perché non dispongo dei test necessari. Mi sembra però che certi cervelli somiglino un po’ troppo a quelli che portarono Orvieto sull’orlo del dissesto e che non hanno rimborsato nemmeno un euro dei danni che hanno fatto. Non se la sentono di mandare a casa il sindaco Germani perché quelli di loro che siedono in consiglio comunale lo seguirebbero con ben poche speranze di rientrarvi. Per il momento, si sono accontentati di far fuori Massimo Gnagnarini.
La ventilata chiusura della Libreria dei Sette. Vi sono margini per una soluzione?
di Pier Luigi Leoni
La Libreria dei Sette, gestita dalla famiglia Campino dal 1994, occupa vasti locali al piano terra del centralissimo e prestigioso Palazzo dei Sette, di proprietà comunale. Il canone corrisposto al Comune è di 31.000 euro all’anno, un po’ di più di 2.500 euro al mese. Parte dei locali era stata occupata, dal 1922 al 1958, dalla libreria di Adelio Michelangeli e, dal 1958 al 1994, dalla libreria di Enzo Fusari. Quindi, legittimamente, la Libreria dei Sette si considera “libreria storica” e celebra quest’anno il 95° anniversario. Un anniversario tormentato perché i gestori della libreria hanno affermato che stanno per essere travolti dalla crisi generale delle librerie che, negli anni 2010-2015, ha comportato la chiusura in Italia di 288 esercizi su 1.115. Un fenomeno così massiccio si spiega con la concorrenza spietata e crescente dell’e-commerce e col fatto che gli italiani, nonostante il mare di denaro che lo Stato spende per l’istruzione pubblica, continua a leggere poco. Si calcola che poco più del 40 per cento leggano un libro all’anno e un po’ meno del 10 per cento un libro al mese. Il 21 ottobre scorso, in una affollata assemblea pubblica, Riccardo Campino, con un discorso molto eloquente, ha spiegato che la chiusura della Libreria dei Sette rappresenterebbe un duro colpo per la qualità del centro storico e ha sollecitato gli amministratori pubblici, gli imprenditori e i semplici cittadini a darsi una mossa per salvare la Libreria. Ma, poiché non è pensabile che gli orvietani diventino accaniti lettori per salvare la Libreria dei Sette, né che gli imprenditori si sveglino all’improvviso, devo pensare che il messaggio sia diretto agli amministratori del comune di Orvieto, cioè alla proprietà dei locali. Mentre la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e la conseguente reazione servirebbero a dare forza al messaggio. Sennonché l’amministrazione comunale, per bocca dell’assessore alle finanze Massimo Gnagnarini, ha reagito in modo piuttosto duro contestando le difficoltà finanziarie del gestore. Ha scritto l’assessore che la Libreria dei Sette srl «sulla base di paventate difficoltà economiche, ha prima chiesto al Comune una riduzione d’affitto dei locali che occupa a Palazzo dei Sette per poi svolgere una conferenza stampa molto partecipata che ha fatto da catalizzatore della protesta e delle critiche rivolte al Comune. Dai bilanci ufficiali dell’azienda della famiglia Campino depositati presso la Camera di Commercio di Terni non si evince, nell’ultimo triennio, alcun segno di crisi, ma al contrario un trend positivo e di crescita di ricavi da fatturato.» Da cliente affezionato della Libreria dei Sette, ma anche da cittadino orvietano ed ex amministratore comunale, non vorrei cedere alle sollecitazioni emozionali e vorrei capire come stanno effettivamente le cose e se vi siano margini legali per una soluzione positiva. Non senza ricordare alla Libreria dei Sette che la maggior parte degli orvietani non leggono nemmeno un libro all’anno e si ritengono comproprietari di quei prestigiosi locali nei quali sognano, ciascuno a modo suo, chissà quali realizzazioni più sollazzevoli di una benché storica, prestigiosa, ben organizzata e ben gestita libreria.
L’opinione di Barbabella
Che dire di più di quanto non ho già detto nello scambio di missive con Massimo Gnagnarini quando ancora era assessore? Difficile dire di più, perché sull’argomento è stato detto tanto, e su più di qualcosa anche al di là sia delle regole di cortesia sia di quelle di opportunità e rispetto. Posso però senz’altro affermare che non ho elementi per capire se e come sarà trovata una via giusta per evitare la chiusura. Forse qualcosa di più ne sapremo dopo che domenica (scrivo la sera di sabato) sarà avvenuto il secondo incontro di sensibilizzazione promosso da Riccardo Campino. E in questa occasione forse capiremo meglio anche i termini della polemica sul bilancio dell’azienda. Ma per questo aspetto qui mi fermo, non avendo, come ho detto, elementi di conoscenza che mi permettano di formulare un giudizio.
Piuttosto, mi pare necessario ribadire anche in questa occasione che l’impegno per salvare la libreria non può essere diverso da quello che si deve mettere per incoraggiare tutte le attività che fanno di una città una realtà che ha le carte in regola per essere tale. Orvieto sta rischiando molto seriamente di non esserlo più per una serie di cause concomitanti che vanno dalla perdita di funzioni pubbliche importanti, e quindi di ruolo urbano e territoriale, alla chiusura di esercizi e aziende private, e infine, forse è la cosa più grave, alla perdita di fiducia nelle proprie forze. Bisogna dunque reagire e la questione della libreria ha assunto per questo quasi un valore simbolico.
La scelta di confermare e ampliare la destinazione del piano terra di Palazzo dei Sette a libreria, insieme all’accesso alla Torre del Moro, è stata certamente giusta e coerente sia con la funzione urbana di questo palazzo sia con le esigenze della città. Ma un simile complesso, in quella posizione centrale, deve essere inteso ed effettivamente utilizzato come propulsore della vita cittadina, sennò non funziona nemmeno la libreria. In questo senso resta essenziale aprire la Galleria del Moro, sogno storico di molti orvietani, mio senz’altro, e però tra gli altri, mi piace ricordarlo, anche di Alberto Stramaccioni e dello stesso Enzo Fusari.
Tramite la Galleria, il palazzo diventerebbe il punto focale di congiunzione tra Corso Cavour e Piazza del popolo, e si formerebbe una interrelazione tra spazi di transito e spazi di attività (Palazzo dei Sette + Palazzo del popolo) che potrebbe rappresentare davvero uno dei punti focali del rilancio di Orvieto, essendo gli altri collocati in Piazza del Duomo, all’ex Piave e tra Piazza San Giovenale e Piazza San Giovanni. In questo quadro anche le questioni del traffico e della sosta potrebbero assumere una valenza diversa da quella che hanno assunto in questa fase, soprattutto poi se si riuscisse a far decollare le attività congressuali del Palazzo del Popolo, magari appunto congiuntamente ad attività collegate in Palazzo dei Sette.
Un sogno? Forse. Ma Orvieto può vivere solo se è capace di sognare. Perciò, se la vicenda della Libreria dei Sette alla fine avesse avuto anche la funzione di risvegliare negli orvietani il senso del dovere di sognare, dovremmo testimoniare ai Campino il nostro sincero apprezzamento, al di là della funzione culturale che in ogni caso una libreria oggettivamente svolge.