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Rifiuti tossici spediti via mare e rivenduti come padelle, anche l’azienda orvietana Alluminio Frantumani al centro dell’inchiesta

Redazione by Redazione
14 Ottobre 2017
in Cronaca, Secondarie, Archivio notizie
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ORVIETO – Traffico internazionale di rifiuti metallici contaminati, sequestri ai piedi della Rupe. C’è anche la “Alluminio Frantumati Spa” tra le aziende poste sotto sequestro nell’ambito dell’operazione denominata “End of Waste” coordinata dalla direzione distrettuale Antimafia di Roma. L’azienda orvietana, nata dalle ceneri della Trentavizi Spa ma attualmente di proprietà di imprenditori pratesi, è infatti una delle protagoniste al centro dell’indagine, insieme a un altro cartello di imprese, dedite al traffico internazionale di rifiuti metallici contaminati che, spediti via mare su container da vari porti italiani (Civitavecchia, Livorno, La Spezia, Genova e Ravenna), raggiungevano le destinazioni di Cina, Indonesia, Pakistan e Corea. Ieri pomeriggio gli uomini della Guardia Costiera di Livorno hanno apposto i sigilli anche ai cancelli dell’azienda con sede operativa a Bardano. L’inchiesta è partita all’inizio del 2016, quando da un controllo di routine dei trasporti via mare, gli investigatori si sono imbattuti in due società – la Tmr di Castiglione in Teverina (Viterbo) e la Alluminio Frantumati di Orvieto – che effettuavano movimentazioni sospette.
Sette le ordinanze di custodia cautelare personale emesse dal tribunale di Roma su richiesta della Dda tra titolari, amministrativi e tecnici delle due aziende specializzate nel trattamento di rifiuti. Le accuse ipotizzate nei confronti degli indagati vanno dall’associazione a delinquere finalizzata al traffico e alla gestione illecita di rifiuti all’autoriciclaggio e al falso.
Ingente il volume d’affari –  pari ad oltre 46milioni di euro – derivante dal traffico illecito dei rifiuti portato alla scoperto dall’attività investigativa durata due anni. Circa il “modus operandi” delle aziende coinvolte, mediante vari giri di false attestazioni e certificati, i soggetti arrestati, acquistavano rifiuti industriali complessi e contaminati soprattutto da policlorobifenili, di tossicità equiparata alla diossina. Dopo aver simulato lo svolgimento di procedure di bonifica in Italia lo rivendevano come materiale recuperato e ‘pronto forno’ per un nuovo ciclo produttivo. In realtà, dunque, i rifiuti, che dovevano essere trattati secondo stringenti normative ambientali, venivano semplicemente «macinati» e, una volta giunti a destinazione, riciclati e rivenduti sotto forma di padelle e sportelli per auto.
Per questo, all’operazione è stato dato il nome “End of Waste”, termini che indicano normalmente il rifiuto che cessa di essere tale al termine di un idoneo ciclo di trattamento e bonifica; ritorna ad essere materia “prima” da impiegarsi in un nuovo ciclo produttivo. La trattazione e la bonifica dei rifiuti è disciplinata infatti da un articolato quadro normativo nazionale, europeo ed internazionale che discendono dalla Convenzione di Basilea. Ogni operatore, in ogni fase della filiera, deve poter dimostrare la provenienza e la destinazione dei prodotti, nonché i trattamenti a cui sono stati sottoposti o a cui saranno sottoposti.

 

 

 

 

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