Il mondo dell’incertezza e il bisogno di resilienza
di Franco Raimondo Barbabella
Il Novecento ha decretato la fine delle grandi costruzioni ideologiche e del mondo bipolare. Come conseguenza si sono avute insieme la globalizzazione e la frammentazione, sia del mondo che della singole società, soprattutto nell’Occidente a forte sviluppo tecnologico. Siamo entrati, che lo si voglia o no, nel mondo dell’incertezza e del rischio.
In questo quadro, la settennale/novennale crisi che ne è discesa, di cui ancora per lungo tempo pagheremo le conseguenze, ha costretto persone e ambienti diversi a riflessioni di fondo su come interpretare i fenomeni economico-sociali, e nel contempo su come rapportarsi sia alle variazioni climatiche che ai cambiamenti geopolitici e ai loro riflessi sia sulla vita degli individui che sugli assetti politici generali e particolari. Riflessione non puramente accademica, ma finalizzata al contrario a definire efficaci strategie di governo a tutti i livelli. Uno degli approcci che a me sembrano più adeguati è quello che usa il criterio della resilienza.
Com’è noto, la resilienza riguarda il comportamento sia dei materiali che delle persone e degli stati. In generale si tratta della capacità di adattarsi ai cambiamenti. Se ne conoscono ormai il significato e le potenzialità concrete in diversi campi, dall’ingegneria all’informatica, dall’ecologia alla psicologia, dall’arte al risk management, dall’agricoltura all’economia industriale. E se ne conoscono gli effetti nella vita individuale, in quella famigliare e in quella delle comunità.
Non è ancora sperimentata invece la sua applicazione alle strategie di governo di sistemi statali o territoriali o di comunità. Ma dagli studi e dai convegni con esiti noti si può già derivare la convinzione che si tratta di un approccio parecchio innovativo che, qualora adottato sul serio anche in quest’ultimo settore, può introdurci in un’epoca diversa da quelle che abbiamo vissuto, due in particolare, l’epoca delle decisioni imposte e l’epoca attuale delle decisioni/indecisioni confuse.
Che cosa significa dunque in concreto adottare strategie di resilienza? Innanzitutto si deve tener conto del fatto che, come già quello di oggi, il mondo del futuro sarà sempre più caratterizzato dall’incertezza e da eventi imprevisti. In un mondo così sarà molto importante essere capaci di prevenire i pericoli, di affrontare i rischi con consapevolezza e di reagire agli accadimenti indesiderati che pure avverranno. Di conseguenza, al livello delle comunità, intese sia come città e territori sia come stati, sarà necessario attivare non più solo politiche di settore, ma politiche di sistema. E due sono le caratteristiche di tali politiche: l’approccio olistico (quello che intreccia i campi di azione) e la responsabilità diffusa.
Esattamente il contrario di ciò che vediamo in atto oggi. Non è nemmeno il caso di indicare qualche esempio che dimostri l’assenza di resilienza nelle politiche istituzionali, essendoci solo l’imbarazzo della scelta. Ci si accorge del problema quando i buoi sono scappati dalla stalla, ci si ferma al particolare, non se ne analizzano le cause e tanto meno si mette a fuoco il contesto. Soprattutto è fuori dall’interesse l’esigenza di una visione prospettica delle cose che guidi le scelte particolari. E di conseguenza anche l’idea di come correggere il tiro, far emergere le potenzialità rispetto al lamento e attrezzarsi perché si costituisca una classe dirigente adeguata ai difficili compiti di governo nel mondo dell’incertezza.
Quella presente è una difficile fase di passaggio. Non ci sono modelli immediatamente spendibili, non ci sono ricette facili. Ma l’approccio della resilienza è certamente da prendere in considerazione come un’opportunità per la reimpostazione della governance sia degli stati che delle città in termini di visione, cultura e responsabilità.
L’opinione di Leoni
Che l’umanità sia in grado di risolvere i suoi nuovi problemi mi sembra ancora da dimostrare, perché fino ad ora, appena risolto un problema, il progresso scientifico e tecnico che ha consentito di risolvere problemi posti dalla natura è stato usato per creare altri problemi. E i problemi creati dagli esseri umani sono più pesanti e letali di quelli posti dalla natura.
Per esempio, il perfezionamento delle armi ha consentito di passare dall’ascia di pietra, buona per procurarsi un po’ di cibo e per ammazzare qualche rivale della tribù vicina, alle più efficaci armi di bronzo, alle ancora più efficaci armi di ferro, alle tremendamente più efficaci armi da fuoco e, di progresso in progresso, passando da una carneficina all’altra, alle armi nucleari, da tempo accumulate in misura più che sufficiente per sterminare il genere umano. Certo, la chimica e la biologia, applicate dalla medicina, hanno salvato e salvano molte vite umane, ma hanno riempito gli arsenali di armi chimiche e batteriologiche che ogni tanto fanno capolino nei numerosi e finora inestinguibili focolai di guerra. Qualcosa del genere è accaduto anche nella convivenza sociale, indispensabile all’essere umano, che è “animal socialis et politicus” come si diceva in latino, cioè “animale compagnevole”, come efficacemente ha tradotto Dante Alighieri.
A questo proposito non posso cacciare dalla mente la grande lezione del sociologo tedesco Ferdinand Tönnies (1855- 1936) che delineò i concetti di comunità e di società. La comunità è il gruppo organico che ha per embrione la famiglia coi rapporti tra genitori e figli e tra fratelli (vincoli di sangue), per estendersi ai rapporti di vicinato (vincoli di luogo) e di amicizia (vincoli di spirito). La società è invece una costruzione artificiale, cioè non organica ma meccanica; è “un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono”. La società più è vasta e più si allontana dai valori della comunità e li intossica. Mi viene spontaneo fare un esempio per i concittadini orvietani. Fino a oltre la metà del secolo scorso ogni famiglia colonica faceva parte di una comunità che comprendeva non solo gli abitanti di un podere, ma le famiglie coloniche amiche e imparentate con le quali formava una sorta di clan.
I clan contadini facevano parte certamente della società orvietana, ma non erano in relazione di convivenza comunitaria coi residenti nella città, ma di reciproca competizione; infatti i proprietari dei poderi, nonché i commercianti, gli artigiani e i professionisti cittadini, prestando beni e servizi, cercavano di ottenere il più possibile dai contadini, che cercavano di dare loro il meno possibile. I contadini facevano parte anche della società italiana, che in cambio di scarsissimi servizi, prelevava sistematicamente dalle case coloniche i giovani maschi per il servizio militare obbligatorio e per mandarli, spesso e volentieri, al massacro nelle varie guerre. Perciò quando sento parlare i resilienza, un termine coniato dalla scienza, e lo vedo applicato alla società, mi allarmo. Ma soprattutto mi allarma la società globale che si va sempre più coagulando e il senso comunitario che si va liquefacendo. Intanto evito di visitare le città grandi e affollate, uso il meno possibile gli aerei, evito quanto posso le autostrade, scoraggio i ladri non tenendo beni preziosi in casa e tengo i miei modesti risparmi in banca, preferendo il furto con cortesia al furto con scasso. E spero nelle sorprese della storia.
Legittima difesa e licenza di uccidere
di Pier Luigi Leoni
L’avvocato Francesco Palumbo di Latina, sentito l’allarme da casa dei genitori, ha impugnato la pistola e ha sparato 12 colpi, uno dei quali ha colpito alle spalle uno dei tre ladri, che stava scendendo da una scala, uccidendolo. La procura di Latina ha deciso prontamente di indagare l’avvocato per omicidio volontario. Come in ogni caso di autodifesa della vita e o della proprietà, in cui ci scappa il morto, si è aperto un dibattito nazionale sulla legittima difesa. Lo scrittore e giornalista Mario Giordano, ha espresso molto chiaramente quella che forse è l’opinione prevalente nella popolazione italiana. «Secondo me la legge dovrebbe impedire di indagare chi uccide per difendersi. L’indagine va aperta sul ladro: una volta che si accerta che la persona che si è introdotta nella casa altrui è un ladro, il caso è chiuso. Nessun avviso di garanzia, nessun processo, nessuna discrezionalità del magistrato nei confronti di chi, come l’avvocato Palumbo, non avrebbe fatto male a nessuno se non fosse stato minacciato. Qualcuno dice: eh, ma se il ladro stava scappando?
Eh, ma se il ladro era disarmato? Eh, ma se il ladro era buono? Un ladro non è mai buono, altrimenti non fa il ladro. E quante volte ladri disarmati hanno ucciso prendendo un oggetto a caso? Quanti ladri hanno fatto finta di scappare per poi tornare indietro e fare del male? E che cosa ne sappiamo noi di che cosa fanno i complici del ladro che scappa o finge di farlo?» Ma il fatto è che lo Stato di diritto, del quale lo Stato democratico è la forma più evoluta, è una conquista della civiltà. E, nello Stato diritto, l’esercizio della violenza è riservato allo Stato e regolato dalla legge. E la legge, nello Stato di diritto, non può che ammettere rare eccezioni, una delle quali è la legittima difesa nei limiti della stretta necessità, altrimenti la giustizia privata farebbe crollare il monopolio statale della violenza. L’obiezione umanamente comprensibile è che lo Stato non è capace di contrastare efficacemente la violenza dei delinquenti; infatti la malavita imperversa e controlla addirittura alcune intere regioni; la facilità con cui si percorrono le strade senza controlli adeguati agevola la malavita organizzata; e l’abolizione delle frontiere in seno all’Europa è gradita dai giramondo, ma ha facilitato la circolazione delle fecce di tutti i Paesi. Per di più lo Stato non risponde delle proprie colpe. Ma l’alternativa allo Stato di diritto sarebbe una retrocessione a situazioni molto peggiori. Basta aprire un libro di storia. Quindi la legge sulla legittima difesa può essere ritoccata, ma non potrà mai dare la licenza di uccidere.
L’opinione di Barbabella
È un’evidenza: lo stato di diritto non può rinunciare ad essere se stesso. Legittimare la licenza di uccidere equivarrebbe a dichiarare la fine della sua funzione di garanzia di equità e con ciò la restituzione ai singoli del libero diritto di offesa, con la conseguenza del ritorno a quello che Hobbes definiva il “bellum omnium contra omnes”, la condizione dello stato di natura da cui si esce con il patto sociale.
Ed è appunto il patto sociale che in cambio della rinuncia alla libertà illimitata (compresa la licenza di uccidere), che inevitabilmente si trasforma nel boomerang dell’insicurezza d’esistenza, assicura ad ogni individuo la tutela dei diritti fondamentali (vita, libertà, proprietà). È appunto un patto (ovvio, un modello ideale): delego allo stato parte della mia libertà perché lì nello stato può risiedere il potere di regolamentare i rapporti tra i cittadini esercitando giustizia e comminando pene, ciò che garantisce anche me.
Mario Giordano in questa circostanza, come in tante altre, esagera fino a schiacciarsi sulle ondate del più becero giustizialismo. Non me ne meraviglio: c’è un giornalismo che ha successo per questo, raccoglie le pulsioni e le rilancia, vivendoci piuttosto bene. È l’espressione di una lunga operazione di spezzettamento dello spirito pubblico, ad uso e consumo di frange fameliche che usano gli istinti più primitivi per assicurarsi ruolo sociale e buone prebende.
L’esatto contrario di ciò che dico appunto nel mio elzeviro quando parlo della strategia della resilienza che comporta la responsabilità di tutti nei confronti della società, nel senso che chi governa deve farlo con l’occhio rivolto all’interesse generale e non alla distribuzione dei pani e dei pesci, e nel senso che ogni cittadino deve coltivare e trasmettere ai discendenti l’abitudine a valutare razionalmente le situazioni e a reagire ai problemi usando la testa e molto meno la pancia o i piedi. Ma so di essere in minoranza, perché la razionalità non è chic, e comunque non c’è più sordo di chi non vuol sentire e ho l’impressione che Mario Giordano (che mi auguro almeno capisca che cosa sta dicendo), visto come argomenta, è tra quelli che ignorano perfino l’esistenza di Amplifon.