L’assioma dell’uguaglianza degli esseri umani: tradimenti e speranze
di Pier Luigi Leoni
Nel 1537 il Papa Paolo III Farnese, informato dei soprusi degli Spagnoli nei confronti degli Indios e scandalizzato da chi andava mettendo in dubbio l’appartenenza di quella gente alla specie umana, emanava la bolla Sublimis Deus. Paolo III affermava ex cathedra che gli Indios dovevano essere considerati esseri umani a tutti gli effetti e non dovevano essere schiavizzati e depredati. La bolla si riferiva anche agli altri popoli della terra, conosciuti o sconosciuti, indipendentemente dalla loro fede (licet extra fidem Christi).
Il principio affermato da Paolo III, evidentemente basato sulla fede in Gesù Cristo e nelle sue parole sulla fraternità dei Figli di Dio, è stato largamente e tragicamente disatteso anche dai cristiani. Ma è penetrato, attraverso i principi illuministici e giusnaturalisti nelle istituzioni giuridiche del mondo civile, a cominciare dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità…». Questi principi, “depurati” del riferimento al Creatore, sono stati via via accolti dalle costituzioni nazionali e sono finiti anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (ONU 1948). Trasferito dall’area della fede a quello della laicità, il principio della sostanziale e uguale dignità degli esseri umani è diventato un assioma, cioè una affermazione il cui valore di verità è indiscutibile anche se indimostrabile. L’assioma regge sul piano dei principi giuridici, anche se, come lucidamente scrive James Hillman, «le disuguaglianze precedono il primo vagito. Qualsiasi infermiera del reparto maternità di qualsiasi ospedale può confermare che la disuguaglianza esiste dall’inizio. I neonati differiscono l’uno dall’altro. Gli studi di genetica mettono in luce differenze innate di abilità, di temperamento, di sensibilità. Quanto alla situazione di vita in cui siamo calati, che cosa potrebbe esistere di più ineguale dell’ambiente? Alcuni, poi, sono svantaggiati per cultura e per natura contemporaneamente, e fin dall’inizio».
Non bastò ai popoli che si professavano cristiani l’insegnamento di Paolo III. Non bastano ai contemporanei secolarizzati i principi scolpiti nelle costituzioni nazionali. Quanto all’Italia, dove i credenti costituiscono tuttora una forte minoranza, né il principio di fede né l’assioma laico della uguaglianza degli esseri umani riescono a imporre la linea nell’impatto con una massiccia e disordinata immigrazione. Viene fuori la paura delle diversità. E se alcune diversità fanno poca paura, come quelle dei servizievoli e mansueti filippini, altre diversità destano grande spavento, come quella dei mussulmani arabi del Maghreb. In mezzo ci sono i mussulmani africani di colore, che sembrano più tiepidi nel loro islamismo e che poco sono coinvolti nel terrorismo fondamentalista.
E la paura frastorna e allarma la gente semplice, mentre chi semplice non si ritiene tira fuori scemenze che non esorcizzano, ma aggravano la paura. Per esempio che “gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare”; che “gli immigrati servono per pagare le pensioni agli italiani”; che “gli immigrati sono il rimedio alla denatalità degli italiani”. C’è poi l’enorme contraddizione tra i fautori della multiculturalità (cioè la trasposizione entro i confini italiani di quella ricchezza e varietà culturale che esiste nel mondo) e l’enfatizzazione del principio dell’integrazione, che è la negazione della multiculturalità, ma l’imposizione della cultura dominante a chi, dopo aver dovuto rinunciare alla propria terra, dovrebbe rinunciare anche alla propria identità culturale.
In definitiva si stanno ancora una volta tradendo la dottrina cristiana e l’assioma laico della uguale dignità degli esseri umani. Il Papa, dopo un periodo di affermazioni di principio e di invito alla solidarietà fraterna, ha elaborato un insegnamento più convincente dal punto di vista cristiano, in quanto l’amore fraterno è qualcosa di più delle affermazioni di principio e delle prediche inutili. Vale a dire che ogni casa, compresa la grande casa che è la nazione, deve essere aperta agli ospiti, ma gli ospiti devono essere trattati con rispetto ed essi devono rispettare le regole della casa. L’ospite non viene lasciato a bivaccare sotto il portico e sfruttato per i lavori servili, ma ospitato decorosamente, se è possibile e nei limiti del possibile. Nell’auspicio del Papa vi è che dal reciproco rispetto possa nascere l’amore fraterno. Utopia? A pensarci bene il mondo diventerebbe più bello.
L’opinione di Barbabella
Le utopie hanno avuto sempre il merito di essere un invito a spostare lo sguardo e ad allargare l’orizzonte. Ma diventano fonte di guai quando si trasformano in ideologia, quegli assoluti che prescindono dalla realtà effettuale. Il reciproco rispetto quale modo di essere delle persone in carne ed ossa non è un dato ma una conquista, sia personale che della cultura e dell’organizzazione sociale in cui avviene la formazione.
Questione dunque complessa, come l’amore fraterno, o altrimenti fraternità. Né potrebbe essere altrimenti, sennò perché questo termine sarebbe diventato programmatico solo ad un certo stadio dello sviluppo della storia dell’Occidente (rivoluzione francese)? Perciò, ripeto, io credo che reciproco rispetto e fraternità siano da considerare come caratteristiche di alta civiltà nei rapporti tra persone, da raggiungere e poi da conservare sia per impegno individuale che come clima sociale razionalmente organizzato.
D’altronde nell’esposizione del tema che ne fa qui Pier Luigi emergono con chiarezza le due questioni connesse con l’affermazione del principio di uguaglianza degli esseri umani: il percorso lungo e travagliato della sua conquista e l’insicurezza costante della sua realizzazione. Giacché, come accade per ogni conquista dell’umanità, non è detto che al riconoscimento formale dei principi corrispondano poi comportamenti individuali e collettivi con essi coerenti. Nella storia umana non c’è mai nulla di automatico. Si pensi alla libertà, una conquista mai definitivamente acquisita, che richiede una riflessione continua sul suo significato e comunque il coraggio giornaliero di sceglierla.
Ecco perché è necessaria la politica, ed ecco perché la forma più avanzata della politica è e resta la democrazia rappresentativa, che permette di fare scelte più meditate che in altri sistemi e soprattutto permette, se necessario, di correggere le decisioni mediante la lotta delle idee e non con l’uso del fucile. Com’è dimostrato anche dalle nostrane vicende legate al fenomeno drammatico dell’immigrazione: finché ci si è fermati alla dialettica tra la chiacchiera buonista e quella cattivista abbiamo rischiato di far diventare la fraternità la copertura di un mix di speculazione e brigantaggio, con tanto di morti in mare, bivacchi diffusi, racket, e tutto il resto che sappiamo. Altro che società multiculturale e integrazione! Termini della cui contraddittorietà evidente con il loro uso contemporaneo non è interessato niente a nessuno.
La cosa ha preso un verso quando si è fatta una scelta, quella di impedire che l’immigrazione diventasse un flusso incontrollato, con conseguente ovvia paura irrazionale e però anche alimentata dalla follia di una parte consistente di quella che continuiamo a chiamare forse impropriamente classe dirigente. C’è poco da fare, prima la Francia e La Gran Bretagna con i loro modelli distinti di integrazione e multicultura, e poi l’Italia con il suo mix confusionario, hanno dimostrato che non ci sono soluzioni certe, prive di gravi difficoltà e di pericoli.
La soluzione possibile che si intravede per una praticabilità effettiva del rispetto dei diritti umani nelle società sviluppate dell’Occidente che accolgono immigrati, appunto alla luce delle esperienze diverse già fatte, è quel complesso di politiche che definiamo migrazioni controllate, con due punti decisivi: rispetto per le scelte culturali di chi è accolto e rispetto contemporaneo delle norme giuridiche e comportamentali proprie di chi accoglie. La sintesi avviene sì nell’organizzazione sociale, ma soprattutto avviene nella testa delle persone. L’educazione svolge un ruolo fondamentale, ma bisogna rendersi conto che la sua efficacia non dipende solo da come lavora la scuola ma da come lavora complessivamente la società.
Dalla Catalogna a noi: le piccole patrie impoveriscono, l’autonomia con obiettivi comuni rende più forti e sicuri
di Franco Raimondo Barbabella
Le vicende recenti della Brexit e quelle recentissime della Catalogna hanno fatto capire anche i più ostinati che, se i processi di aggregazione politico-istituzionale sono difficili, quelli di disgregazione di apparati esistenti in regimi democratici non sono passeggiate. Il fatto è che non ci sono di mezzo solo gli interessi del momento (economici e politici, individuali e di gruppo, ecc.) ma c’è di mezzo una storia lunga di secoli che, attraverso complessi e spesso drammatici processi, ha portato alla formazione prima degli stati nazionali e poi dello stato moderno come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Dunque smantellare queste faticose costruzioni di sicuro si può, ma a quale prezzo? Sarà minore di quello pagato per la loro costruzione? Ne dubito. Si dice che costruire è difficile, mentre distruggere è facile. Non sempre è così, e comunque non vale per i processi che coinvolgono le popolazioni che, in base a forti elementi basilari di comunanza, alla fine di un percorso si sono ritrovate intorno ad istituzioni comuni nella convinzione che le differenze non sono di ostacolo alla condivisione di un comune destino e che anzi lo facilitano.
Per questo l’indipendenza della Catalogna aggrava la questione già resa evidente dalla Brexit. Nel caso della Brexit, infatti, si può discutere quanto si vuole sulla sensatezza e sulla lungimiranza dei promotori, ma si deve ammettere che in fondo si tratta del ritorno ad un isolazionismo parziale coerente con la storia del Regno Unito, con il suo essere isola e con la sua vocazione marinara di lungo corso. Nel caso della Catalogna invece, nonostante il fatto che l’unità della Spagna originò nel XV° secolo da un matrimonio di re, sarebbe una rottura vera perché in tempi recenti il comune destino è stato riaffermato sia dalla sconfitta del franchismo che dall’adesione al consorzio di stati che costituisce oggi l’Unione Europea. Tant’è che i promotori sono una minoranza, la regione è spaccata e il presidente Puigdemont nel discorso di martedi 10 è stato costretto a sospendere la dichiarazione di indipendenza. Con quali sviluppi e conseguenze si vedrà, e però chi imbocca certe strade ormai sa che non è quella la migliore strategia per assicurare un futuro migliore alle comunità.
Ma che cosa vuol dire che sul piano istituzionale non è facile distruggere ciò che faticosamente è stato costruito? È ciò che vediamo ora squadernarsi davanti ai nostri occhi: l’interdipendenza (sia di derivazione storica che connessa con la globalizzazione) fa sì che la retorica della piccola patria per un certo tempo può alimentare il bisogno identitario di popolazioni ignare delle conseguenze di atti come la proclamazione unilaterale di indipendenza, ma non consente poi passaggi lineari e pacifici. Non lo consentono situazioni in cui l’indipendenza si giustifica con il bisogno di liberarsi dall’oppressione straniera, figurarsi se lo può consentire solo il desiderio di trarre tutti i vantaggi dal benessere economico conquistato peraltro all’interno di una formazione statuale unitaria. Vale per la Catalogna come anche per il Lombardo-Veneto.
Allora tutto bene così? Siccome le piccole patrie, nell’epoca delle interdipendenze multiple, sono un non senso, evviva il centralismo? No, esattamente il contrario: mentre la costituzione di ministati indipendenti può essere solo un disegno di classi dirigenti miopi e vocate all’inganno di popoli (o settori di essi) disposti a farsi ingannare, l’autonomia non lo è, anzi, l’autonomia è proprio ciò che si dovrebbe consapevolmente accompagnare all’interdipendenza e alla globalizzazione. La differenza fa ricchezza. Ma solo dentro quadri che garantiscano la convergenza su obiettivi comuni condivisi. Per cui lo schema tendenziale, nell’area che ci riguarda da vicino, non può che essere una confederazione di stati dotati di autonomia, i quali a loro volta si organizzano in regioni autonome (che andrebbero snellite in numero, compiti e organizzazione) costituite da liberi comuni che si aggregano secondo obiettivi funzionali (mediante la costituzione di ampie unioni di comuni anche al di là dei confini regionali attuali).
Un modello ideale, certo, ma classi dirigenti degni di questo nome non dovrebbero mai prescindere da idee progettuali di largo respiro. Ciò che vale a tutti i livelli di dibattito e di azione. Con la conseguenza che questi parametri dovrebbero anche contribuire a misurare l’adeguatezza o meno di chi si propone come interprete dei bisogni da governare in una fase storica come quella presente.
Insomma, la capacità di autonomia e insieme l’impegno alla collaborazione per obiettivi comuni vale sia a livello nazionale che sovranazionale, a livello regionale come a livello comunale. È l’affermazione di un ideale. Non sono affatto sicuro che si tratti di un ideale largamente condiviso e che, almeno nel breve periodo, si andrà in questa direzione. Attenzione però: chi non attua le riforme in modo lungimirante e nei tempi giusti non deve poi sorprendersi se prendono piede gruppi e movimenti che aggrediscono la realtà senza troppi complimenti.
L’opinione di Leoni
La classe non è acqua. Di fronte al secessionismo scozzese, il Regno Unito indisse un referendum che ebbe esito negativo. Durante la campagna referendaria i costi e i benefici della separazione furono ampiamente dibattuti e la maggior parte degli Scozzesi si convinsero che era meglio stare come stavano. Perché ciò non è stato e non è possibile in Catalogna? Soprattutto perché il Regno Unito si è sempre guardato dal darsi una costituzione scritta e perciò la questione è stata affrontata con legge ordinaria. Ma la Spagna, come anche l’Italia, ha una costituzione scritta e rigida, nel senso che la sua modificazione richiede un procedimento complesso, molto più complesso di quello previsto per la revisione costituzionale in Italia. Questo lega le mani al governo spagnolo e al Re di Spagna e, nel contempo, condiziona ed esaspera i secessionisti catalani. Da parte sua l’Unione Europea, già appesantita da staterelli anche più piccoli di quello che sarebbe la Repubblica di Catalogna, non dispone di norme per gestire le crisi regionali e non può che scoraggiare la secessione catalana e lasciare che la Spagna se la cavi da sola. Ma i secessionisti catalani sono soli anche nei confronti del resto del mondo, che non ha niente da guadagnare dalle pulsioni indipendentiste di piccole aree culturali. Allora perché i secessionisti catalani s’intestardiscono?
Qui entrano in ballo le passioni alimentate dal retaggio storico, dal sangue che ha percorso a fiumi la Catalogna durante la guerra civile, con impegno accanito sia dell’una che dell’altra parte, e, soprattutto, dalla rabbia dei secessionisti di convivere, forse in posizione minoritaria, con cittadini catalani che non hanno nessuna intenzione di separarsi dalla Spagna. Questa opinione me la sono formata bazzicando per anni la Catalogna. Spero che la situazione non degeneri perché i Catalani, che presumono di essere più intelligenti degli altri Spagnoli, non possono essere tanto obnubilati dalla presunzione da non rendersi conto che la Catalogna, da una delle regioni più ricche d’Europa può diventare una delle più povere. E la paura della povertà è un buon incentivo a darsi una calmata. Quanto ai criteri per la gestione delle spinte regionali all’autonomia, all’autogoverno e su su fino alla secessione e all’indipendenza, ogni Stato sovrano dovrebbe trovare la sua strada nell’ambito della propria tradizione storico-giuridica e del proprio assetto costituzionale. Per questo l’idea di Franco, che condivido, di imperniare sui comuni e sulla collaborazione intercomunale l’evoluzione dell’assetto istituzionale interno, mi sembra adatta all’Italia.